giovedì 11 febbraio 2021

Covid 19 – Briciole di cultura - Come ti ho fatto un vaccino in pochi mesi

 a cura di  Roberto Budassi - Medico Pediatra

Capitolo 4 

Quando veniamo infettati per la prima volta da un virus o un batterio, il nostro organismo mette in atto una specifica risposta immunitaria di difesa, attivando una serie di cellule specializzate, alcune che producono anticorpi, detti anche immunoglobuline – Ig, (linfociti B), altre che sono in grado di distruggere le cellule infettate (linfociti T citotossici) e altre che sono in grado di riconoscere il germe in caso di una nuova infezione (linfociti T della memoria). Si assiste dapprima alla produzione di anticorpi della classe IgM, più grossolani e di efficacia ridotta, per arrivare nel volgere di un certo numero di giorni a quelli di classe IgG, molto più affini all’obiettivo, quindi più efficaci ed anche più duraturi. Il problema è che nel lasso di tempo che intercorre fra l’infezione e in momento in cui le difese diventano efficaci è possibile che si sviluppi una malattia che può risultare anche molto grave ed a volte fatale.

Ovviamente chi ha superato la malattia ha prodotto una certa quantità di anticorpi IgG che lo hanno guarito e che lo difenderanno per un certo periodo di tempo da una eventuale nuova infezione con lo stesso germe. È il discorso del plasma “convalescente” di cui abbiamo trattato in precedenza. Non solo, ma in caso di reinfezione verranno prodotti rapidamente ulteriori anticorpi IgG da parte di linfociti B a loro volta attivati dai linfociti T della memoria immunitaria, i quali anticorpi si sommeranno a quelli già presenti in circolo. È anche possibile che entrino in gioco i linfociti T citotossici arruolati nel corso della prima infezione. Questo complesso processo che si attiva nel momento di una eventuale reinfezione è detto risposta secondaria ed è solitamente in grado di impedire l’instaurarsi di una seconda malattia, quanto meno nelle forme più gravi.

L’azione dei vaccini è proprio questa: suscitare una robusta risposta secondaria senza prima dover passare attraverso i rischi della malattia naturale dovuta alla prima infezione. Per fare ciò un vaccino deve essere in primis immunogenico, cioè capace di attivare una risposta immunitaria, la qual cosa si può controllare attraverso il dosaggio degli anticorpi IgG, e poi per via degli anticorpi prodotti deve risultare anche protettivo, e questo lo possiamo verificare attraverso la sperimentazione sul campo, ne parleremo più avanti. In sostanza la risposta immunitaria indotta dal vaccino deve dare origine ad una buona quantità di anticorpi e che siano quelli giusti, cioè in grado di neutralizzare il germe incriminato, altrimenti sarebbe come una zecca che stampa soldi falsi. Infine, la citiamo per ultima ma è una qualità irrinunciabile che va considerata per prima, un vaccino deve dimostrare di un buon profilo di sicurezza, cioè non causare effetti indesiderati così importanti da sconsigliarne l’utilizzo.

Dobbiamo anche puntualizzare che un vaccino risulta protettivo anche se non induce la produzione di tutti gli anticorpi che si sviluppano durante la malattia naturale. Infatti per neutralizzare un qualsiasi germe patogeno è sufficiente disporre anche di pochi anticorpi, ma che siano in grado di interferire efficacemente su di una sua funzione fondamentale. Nel caso del SARS-Cov2, tutti i vaccini, indipendentemente da come siano stati costruiti, stimolano la produzione di anticorpi IgG diretti verso la proteina Spike del virus che, come abbiamo visto in precedenza, è fondamentale perché il virus possa entrare nelle cellule. Bloccando la funzione della proteina Spike, il virus non può entrare nella cellula e l’infezione non può avvenire. Abbiamo già visto che diversi anticorpi monoclonali hanno lo stesso meccanismo d’azione.

In realtà produrre un vaccino è una lunga e complessa operazione che dall’ideazione all’ingresso nella pratica clinica, passando attraverso varie fasi sperimentali, diverse autorizzazioni e poi processi industriali, necessita generalmente di molto tempo, in media di circa 10 anni.

Tuttavia i primi vaccini contro il Covid sono entrati nella pratica clinica dopo appena 10 mesi di sperimentazione, e ciò è stato realizzato senza scorciatoie e rispettando tutte le cautele necessarie, nello stesso standard di tutti i vaccini già in uso verso altre malattie. In altre parole la grave situazione pandemica ha reso necessaria la messa in campo di ogni azione in grado di abbreviare i tempi di ciascuna fase, ma senza nulla concedere alla fretta. Potremmo riassumere i cardini di questa operazione in cinque punti fondamentali:

1.      Rapida divulgazione delle nuove conoscenze fra i ricercatori; inoltre immediata adesione alla ricerca da parte dei migliori centri universitari e i migliori ospedali nel mondo. Trovare il supporto scientifico di centri “di livello” costa molto tempo: almeno un anno risparmiato.

2.      Utilizzo di tecnologie già note. Trattandosi di un coronavirus simile a SARS-Cov e MERS-Cov (di cui abbiamo già parlato nel capitolo 2) i metodi per produrre i vaccini erano già pronti. Fino a 5 anni risparmiati.

3.      Finanziamenti immediati e sicuri da parte degli Stati, rischio finanziario zero a carico delle aziende, che non solo non hanno risparmiato sforzi nella ricerca, ma hanno anche prodotto considerevoli quantità di vaccini prima del termine della sperimentazione e della successiva approvazione (che poteva anche non arrivare) e hanno reso i primi lotti immediatamente disponibili. Fino a 3 anni risparmiati.

4.      Sperimentazione ultra-rapida:

a.      Non sono stati necessari studi su colture cellulari, già noti con SARS e MERS: un anno risparmiato.

b.     Stante la gravità della situazione, si sono resi disponibili immediatamente tutti i volontari necessari, tanto che il reclutamento è terminato in poche ore invece di molti mesi: un anno risparmiato.

c.      Le fasi sperimentali di sicurezza e immunogenicità (fasi 1 e 2) sono state portate avanti assieme, circa 6 mesi risparmiati.

d.      La fase sperimentale 3, in cui si saggia l’efficacia del vaccino sul campo, è stata brevissima. In questa fase un certo numero di volontari viene trattato con il farmaco in studio, nel nostro caso il vaccino contro il Covid, ed un numero simile viene trattato con un placebo, un finto vaccino, cioè una sostanza priva di qualsiasi azione farmacologica, senza che né il volontario e nemmeno lo sperimentatore conoscano a chi sia stato somministrato il farmaco e a chi il placebo (sperimentazione in “doppio cieco”). La sperimentazione di fase 3 cessa al raggiungimento di un certo numero di casi di malattia, la qual cosa in genere può richiedere anche anni. Nel nostro caso l’obiettivo è stato raggiunto in soli alcuni mesi, in quanto sono stati coinvolti molti più volontari del solito (decine di migliaia, invece di alcune migliaia), poi tracciati in zone ad alta densità di contagio (Brasile, India e USA, per esempio).

5.      Generalmente l’enorme mole di dati prodotta nel lungo periodo di sperimentazione viene trasmessa in blocco agli organi regolatori (per es. FDA. negli USA, EMA per l’Europa e AIFA in Italia) solo al termine della sperimentazione stessa, i quali organi regolatori impiegano mediamente da uno a 3 anni per studiarli ed infine per autorizzare l’utilizzo clinico del farmaco o vaccino che sia. Questa fase è stata enormemente compressa, utilizzando la tecnica della cosiddetta “rolling review”, per cui i dati sono stati trasmessi agli organi regolatori alla fine di ciascuna fase sperimentale, rendendoli edotti sui risultati in tempo reale. Alla richiesta di autorizzazione l’esame dei pochi dati rimasti è stato rapido e immediato. Da uno a tre anni risparmiati.

Con questo capitolo abbiamo concluso la trattazione di alcuni aspetti fondamentali di questa nuova malattia, per certi versi straordinaria ed unica. Abbiamo trattato della incredibile possibilità di espansione del contagio, di quanto possa risultare grave il processo patologico, abbiamo accennato alle poche ma sempre più efficaci armi che abbiamo per curarla ed ai mezzi per prevenirla, cioè dei vaccini. Il prossimo e ultimo capitolo tratterà degli scenari futuri, in cui analizzeremo le variabili che influiscono su ciascuno degli aspetti precedentemente trattati.

giovedì 4 febbraio 2021

Covid 19 - Briciole di cultura - Difendiamoci!

 a cura di Roberto Budassi - Medico pediatra

Capitolo 3


Alla segnalazione dei primissimi casi di Covid-19 in Cina nel gennaio di un anno fa, l’intero mondo scientifico si è mosso e con gli attuali mezzi di indagine non è stato difficile caratterizzare rapidamente il virus e capire come si sviluppava la malattia, specie nella forma grave, quella che spesso porta all’exitus. In effetti quella che in un primo tempo veniva considerata semplicemente una grave forma di polmonite bilaterale, in realtà era un processo patologico molto più complesso. E fu presto chiaro che la malattia decorre in tre fasi  schematizzate nella figura sotto: nella prima fase prevale la replicazione virale; nella seconda il virus raggiunge il tessuto polmonare e causa una polmonite bilaterale evidenziabile principalmente con la TAC econtemporaneamente si instaura una risposta iper-infiammatoria da parte dell’organismo del paziente; durante la terza fase l’infiammazione si intensifica ulteriormente, ormai svincolata dalla persistenza o meno di forme attive del virus e si possono verificare le complicazioni più temibili, specialmente a carico del cuore, dei reni e del tessuto polmonare che sempre più viene distrutto dall’imponente stato infiammatorio. Il tutto è aggravato da una sorta di iper-coagulazione del sangue che causa innumerevoli trombi a carico di vari organi. È evidente che si tratta di una situazione molto grave che in numerosi casi può portare al decesso del paziente.



Come ci si difende da una simile catastrofe?

È scontato che le nostre strategie devono per prima cosa impedire che il paziente raggiunga la fase 3, che devono interrompere la progressione del processo patologico preferibilmente già in fase 1 o in fase due iniziale. Occorre anche tener conto che sostanzialmente tutti i pazienti in fase 1 si trovano a domicilio e che quando un paziente viene ricoverato di solito si trova in fase 2 più o meno avanzata. I pazienti in fase 3, a meno di una progressione particolarmente veloce, si trovano già in ospedale da giorni. Infine è anche bene puntualizzare che sia l’ossigeno e i sostegni alla respirazione in genere, necessari per superare le forme gravi di difficoltà respiratoria, sia gli antibiotici, utilizzati per prevenire e/o trattare le sovrainfezioni batteriche specie in ospedale, non hanno un ruolo fondamentale al fine di bloccare il visus e arrestare la progressione della malattia, pur essendo indispensabili per mantenere in vita il paziente in attesa di un miglioramento.

Detto ciò, nella prima e seconda fase possiamo utilizzare tutti i farmaci che si oppongono alla replicazione virale, per esempio gli antivirali veri e propri, ma quelli testati finora hanno mostrato un’attività da scarsa a discreta, ma non risolutiva. Sono tra l’altro costosi e poco maneggevoli a domicilio e quindi spesso vengono utilizzati in ospedale in fasi poco precoci. Il cortisone invece è un farmaco estremamente importante per l’azione antinfiammatoria di cui è dotato ed è il farmaco principale per ostacolare la progressione verso la fase 3 e come è noto può essere somministrato anche a domicilio, come pure gli anticoagulanti utili nella profilassi delle tromboembolie. In molti casi, ma purtroppo non sempre, queste terapie sono in grado di arrestare la malattia e favorire la guarigione.

Nel caso di pazienti con andamento più problematico, in fase 2 o 3 per rifarci al nostro schema, si è molto discusso dell’utilizzo del plasma iperimmune, detto anche “convalescente” perché ottenuto dal sangue di soggetti guariti, i quali ovviamente hanno prodotto anticorpi verso il virus. È una terapia nota da circa un secolo e può anche fornire in diversi casi un contributo decisivo verso la guarigione. Tuttavia il plasma convalescente non è un “prodotto” standardizzato, in quanto non conosciamo la qualità degli anticorpi che vi si trovano, essendo potenzialmente un miscuglio diverso per ogni singolo donatore. È evidente inoltre che la disponibilità di plasma dipende dal reperire donatori in numero adeguato e tra l’altro non tutti sono idonei.

Superiamo i problemi del plasma iperimmune utilizzando in terapia i cosiddetti “anticorpi monoclonali”, con i quali mettiamo in atto terapie farmacologiche molto più efficaci e mirate. Gli anticorpi monoclonali sono anticorpi tutti uguali e vengono prodotti in laboratorio da una unica linea cellulare con tecniche molto consolidate e vengono impiegati da molti anni nella terapia delle forme gravi di alcune malattie (artriti croniche, tumori maligni, per esempio). Hanno il vantaggio di poter essere prodotti in quantità illimitata, di essere molto puri, molto più attivi del plasma e quindi efficaci anche in quantità molto piccole. Quindi una volta individuato uno o più anticorpi in grado di bloccare il virus in una qualche fase della sua replicazione, lo si produce in laboratorio mediante una linea di cellule che genera solo quello. Nel nostro caso si è puntata l’attenzione sulla proteina Spike del coronavirus. 

La proteina Spike costituisce appunto la “corona” e serve al virus per agganciarsi a speciali strutture che si trovano sulla superficie delle cellule, dette recettori ACE2, entrare nella cellula e dare il via all’infezione e quindi alla malattia. Un anticorpo che fosse capace di legarsi alla proteina Spike e quindi di impedire l’interazione tra la proteina Spike e il recettore ACE2 sarebbe potenzialmente in grado di impedire l’attivazione coronavirus e di conseguenza potrebbe arrestare o persino prevenire la malattia, se somministrato prima del contagio. Al momento vi sono numerosi anticorpi monoclonali in sperimentazione ed alcuni sono già stati utilizzati, ma non in Italia. I risultati sono molto promettenti (per esempio un monoclonale prodotto in Italia dalla Eli Lilly ha dimostrato di poter arrestare la progressione verso la fase 3 nel 70% dei casi) ed effettivamente quanto saranno entrati nell’utilizzo routinario (al momento si stanno facendo pressioni perché lo si faccia immediatamente) potrebbero rappresentare il fulcro della terapia, quando somministrati nelle fasi precoci della malattia.

Se da un lato ci auguriamo di dare una svolta decisiva alla terapia del Covid-19 con gli anticorpi monoclonali, dall’altro appare chiaro che solo con i vaccini avremo la possibilità di interrompere rapidamente e definitivamente la pandemia. Di questo tratteremo nel prossimo capitolo.
 


domenica 31 gennaio 2021

Approfondimento del concetto di margine di contribuzione

di Luciano Giuliano Giambartolomei 



In questo articolo amplieremo la tematica del margine di contribuzione considerando, oltre al prodotto A precedente richiamato all’attenzione, alcuni altri prodotti fabbricati dalla società ABC.

La considerazione delle schede di costo di tali prodotti ha permesso di ricavare la tabella 01 seguente:

Tabella 01

Sappiamo che la Società ABC sostiene in un intero esercizio costi fissi pari:

€ 2.270.000

Trattandosi di costi che l’azienda non può fare a meno di sostenere perché dipendono da decisioni precedenti non più revocabili, il primo problema che si presenta alla Società ABC è quello di assicurare il loro totale recupero attraverso un adeguato volume di vendita.

Infatti l’azienda potrà entrare nella zona dei profitti solo dopo aver conseguito il recupero dei totali costi fissi dell’esercizio.

Su questi presupposti si basa il SISTEMA DEL MARGINE DI CONTRIBUZIONE:

  •       Ogni volta che si realizza una vendita una parte del ricavo serve per recuperare i costi variabili specificatamente sostenuti per i prodotti venduti.
  •        La restante parte del ricavo, detta MARGINE DI CONTRIBUZIONE, viene integralmente utilizzata per recuperare i costi fissi che matureranno nell’intero esercizio.
  •   Solo quando attraverso le successive vendite si saranno cumulati margini di contribuzione sufficienti a coprire integralmente i costi fissi dell’intero esercizio, i margini di contribuzione delle vendite susseguenti potranno essere destinati alla formazione dell’UTILE.

Possiamo analizzare il meccanismo in base al quale avviene questo recupero attraverso il seguente modello: immaginiamo che all’inizio dell’esercizio la Società ABC si munisca di tre contenitori intestati rispettivamente:

                                       ai COSTI VARIABILI

                                       ai COSTI FISSI

                                       all’UTILE

ed immaginiamo che tali contenitori vengano attivati attraverso i ricavi conseguenti alle vendite secondo la procedura di seguito esplicitata nella tabella 02.

Allego il seguente schema 01 dove possiamo vedere il sistema del margine di contribuzione raffigurato con il principio dei vasi comunicanti.


Vendite realizzate al 2 gennaio (tabella 02)

Il 2 gennaio l’azienda vende 150 unità del prodotto A realizzando ricavi pari ad € 300.150.

L’esame della tabella 02 permette di suddividere i ricavi in due parti:

€ 221.400 relative ai costi variabili

€   78.750 relative al margine di contribuzione

In tal caso possiamo ipotizzare che l’azienda:

·       Inserirà € 221.400 nel contenitore dei cisti variabili

A tale importo l’azienda attingerà per pagare le materie prime, la manodopera diretta, i consumi di energia motrice, ecc. che sono stati necessari per produrre le 150 unità del prodotto A.


  •        Inserirà € 78.750 nel contenitore dei costi fissi.

Poiché i totali costi fissi dell’intero esercizio ammontano a d € 2.270.000, il suddetto inserimento consentirà di ridurre ad € 2.191.250 i costi fissi ancora da recuperare:

Totale costi fissi dell’esercizio                                                                 € 2.270.000

Costi fissi recuperati col margine di contribuzione vendite al 2 gennaio     € 78.750

Costi fissi ancora da recuperare al 2 di gennaio                                  € 2.191.250

Possiamo notare che il margine di contribuzione è stato interamente destinato al recupero dei costi fissi. E ciò avverrà anche per le vendite successive, fino a quando non si sarà realizzato il totale recupero dei costi fissi dell’esercizio.

  •        Non inserirà alcunché nel contenitore dell’UTILE

Infatti l’intero margine di contribuzione è stato utilizzato per recuperare i costi fissi.

Vendite realizzate il 3 gennaio (tabella 03)

Il 3 gennaio l’azienda vende 220 unità del prodotto L realizzando ricavi pari ad € 396.000.

L’esame della tabella 03 permette di suddividere i ricavi in due parti:

€ 253.000, relative ai costi variabili

€ 143.000, relative al margine di contribuzione

In tal caso possiamo ipotizzare che l’azienda:


  •        Inserirà € 253.000 nel contenitore dei costi variabili

Con questo importo verranno coperti tutti i costi di materie prime, di manodopera diretta, di consumi di energia, ecc. specificamente sostenuti per produrre le 220 unità del prodotto L.

  •        Inserirà € 143.000 nel contenitore dei costi fissi.

Questo inserimento consentirà di ridurre ad € 2.048.250 i costi fissi ancora da recuperare al 3 gennaio.

  •        Non inserirà alcunché nel contenitore dell’UTILE.

Vendite realizzate dal 4 gennaio al 1 agosto (tabella 04)

Dal 4 gennaio al 1 agosto l’azienda vende prodotti realizzando totali ricavi pari ad € 6.301.510.

L’esame prodotto per prodotto dei dati presentati nella tabella 04 permette di suddividere i ricavi in due parti:

€ 4.031.590, relative a costi variabili

€ 2.269.920, relative a margine di contribuzione 


In tal caso possiamo ipotizzare che dal 4 gennaio al 1 agosto l’azienda:

  •        Inserirà € 4.031.590 nel contenitore dei costi variabili

Con questo importo verranno coperti tutti i costi di materie prime, manodopera diretta, ecc. specificatamente sostenuti per produrre i prodotti venduti nel periodo considerato.

  •        Inserirà € 2.048.170 nel contenitore dei costi fissi

Questo inserimento consentirà il recupero totale dei costi fissi dell’intero esercizio.

  •        Non inserirà alcunché nel contenitore dell’UTILE

Infatti, fino al 1 agosto, tutti i margini di contribuzione derivanti dalle vendite sono stati integralmente destinati al recupero dei costi fissi dell’esercizio.

Dal 2 agosto in poi, essendo stato recuperato l’intero ammontare dei costi fissi, i margini di contribuzione conseguenti alle successive vendite andranno integralmente a costituire l’UTILE.

Vendite realizzate il 2 agosto (tabella 05)

Il 2 agosto l’azienda vende 2.000 unità del prodotto N realizzando ricavi pari ad € 500.000.

L’esame della tabella 05 permette di rilevare che tali ricavi possono suddividersi in due parti:

€ 290.000 relative ai costi variabili

€ 210.000 relative al margine di contribuzione


In tal caso possiamo ipotizzare che l’azienda:

  •        Inserirà € 290.000 nel contenitore dei costi variabili

Con questo importo verranno coperti tutti i costi di materie prime, manodopera diretta, ecc. specificamente sostenuti per produrre le 2.000 unità del prodotto N.

  •        Inserirà soltanto € 80 nel contenitore dei costi fissi

Infatti le vendite precedenti hanno cumulato margini di contribuzione sufficienti ad assicurare la copertura totale dei costi fissi (esclusi gli € 80) dell’intero esercizio.

  •        Inserirà € 209.920 nel contenitore dell’UTILE

Infatti, essendo integralmente coperti i costi fissi dell’intero esercizio, il margine di contribuzione di questa vendita darà inizio alla formazione dell’UTILE.

In altri termini è come se l’esercizio venisse diviso in due parti: dal 1° gennaio al 1° agosto la società ABC lavora per recuperare i costi fissi della sua struttura, dal 2 agosto al 31 dicembre l’azienda lavora per formare l’UTILE.

La prossima pubblicazione parleremo del: “margine di contribuzione viene assunto come misura della redditività dei prodotti”.

 

Se siete interessati a condividere dei vostri quesiti in merito, scrivete le vostre richieste per ricevere gratuitamente informazioni.





giovedì 28 gennaio 2021

Covid 19 – Briciole di cultura - Una Macchina Perfetta

Capitolo 2

a cura di Roberto Budassi medico pediatra 


In realtà non sappiamo se i virus siano esseri viventi come noi umani, gli animali, le piante e i batteri, oppure forme inanimate come le pietre o qualsiasi altro minerale. In effetti si comportano come macchine che eseguono un programma biologico; però lo possono fare solo all’interno delle cellule. Infatti al di fuori delle cellule prese, per così dire, a prestito, qualsiasi virus risulta assolutamente immobile, non essendo fornito di strutture in grado di effettuare un qualsiasi lavoro metabolico, come ad esempio sintetizzare una molecola o utilizzare una qualche struttura per potersi spostare. Infatti i virus sono costituiti fondamentalmente da un rivestimento e da materiale genetico (DNA o RNA di varia foggia) che codifica unicamente le informazioni necessarie per la sua replicazione.  I virus si attivano solo quando riescono ad entrare all’interno di una cellula, di cui utilizzano l’energia e gli organelli per sintetizzare quanto necessario alla loro replicazione. In sostanza per replicare se stessi, i virus prendono il controllo delle cellule che li ospitano “costringendole” a lavorare per loro. In realtà credo sia opportuno precisare che i virus, nonostante questa parassitosi piuttosto spinta, per la maggior parte vivono in simbiosi con gli esseri che li ospitano, a volte persino con reciproci vantaggi e comunque in assenza di particolari problemi. Solo in pochi sfortunati casi causano all’ospite una malattia, a volte direttamente, distruggendo le cellule parassitate, altre volte indirettamente, quando è l’ospite che  si auto-danneggia reagendo esageratamente all’infezione. In alcuni casi la malattia dipende dalla combinazione dei due meccanismi, come nel caso del Covid e di questo parleremo la prossima settimana. A proposito ricordiamo che “Covid-19” è il nome della malattia, abbreviazione di Coronavirus Disease December 2019, in riferimento all’epoca della prima segnalazione nella regione di Wuhan in Cina, mentre il virus che la causa è stato chiamato “SARS-Cov2”.


Per quanto ne sappiamo finora, SARS-Cov2 è con noi dagli ultimi mesi del 2019, ma c’è qualche incertezza sull’epoca precisa; siamo però certi che è giunto all’uomo dagli animali operando un salto di specie, così come molti altri prima di lui, tipo HIV, Ebola, SARS-Cov e MERS-Cov per citarne solo alcuni fra i più noti e recenti. Gli animali di origine possono essere diversi, ma i coronavirus possono provenire dai pipistrelli, con eventuali altri ospiti intermedi, fra cui per esempio il pangolino, o anche dai dromedari, come la MERS. A differenza dei suoi predecessori, SARS-Cov2 ha caratteristiche così straordinarie che gli hanno permesso di diventare pandemico in pochi mesi senza che nessuno se ne accorgesse più di tanto. Di questo parleremo qui di seguito.

Diventare pandemico per un qualsivoglia virus potrebbe rappresentare il massimo delle ispirazioni, non avendo altra missione se non quella di reduplicare se stesso più volte possibile. Per potervi riuscire la prima regola è essere facilmente trasmissibile e la trasmissibilità per via aerea, attraverso goccioline di saliva o aerosol sospesi negli ambienti chiusi è certamente la più rapida ed efficace. È sufficiente trascorrere alcuni minuti con una persona malata o apparentemente sana in assenza di protezioni per finire contagiati. È stato calcolato che una persona infettata trasmette il nostro virus a altre 3 persone, ma i cosiddetti super diffusori possono arrivare a contagiare oltre 10 persone. Per intenderci, equivale a dire che la sua diffusibilità è superiore a quella della comune influenza.

La seconda regola per sopravvivere e potersi trasmettere è non essere eccessivamente letale. È intuitivo che l’agente virale che causa troppo spesso e troppo rapidamente la morte del suo ospite pone un serio ostacolo sulla sua possibilità di trasmissione e quindi anche sulla sua sopravvivenza. È quello che avviene in Ebola la cui mortalità arriva al 90% degli infettati. Per inciso Ebola ha anche la caratteristica di non diffondersi per via aerea, ma attraverso il contatto con ferite o fluidi del paziente, rendendo relativamente più semplice attuare valide protezioni individuali, salvo casi molto particolari. Per esempio nelle zone africane che sono state interessate dall’epidemia, una delle difficoltà ad arginare i contagi è rappresentata dall’usanza di toccare i cadaveri a mani nude come gesto di saluto.

Le malattie denominate SARS e MERS, apparse rispettivamente nel 2003 e nel 2014, sono anch’esse causate da due coronavirus (SARS-Cov e MERS-Cov), si diffondono ovviamente per via aerea come il Covid, ma hanno caratteristiche che ne hanno limitato la diffusione. Ambedue sviluppano una malattia respiratoria simile al Covid, la seconda causa inoltre anche una grave enterite.


La SARS ha una letalità elevata (circa 10% dei contagiati muore) ma non così tanto da inficiarne la diffusibilità. Qualcuno ricorderà che anche il suo scopritore, il nostro corregionale Carlo Urbani, fu una vittima della malattia. Ben presto però fu evidente che solo i malati sintomatici e solo dopo alcuni giorni dall’insorgenza dei sintomi erano in grado di infettare altre persone, il che rese possibile il contenimento dell’epidemia dopo solo sei mesi dall’individuazione dei primi casi, in quanto era sufficiente isolare i malati ai primi sintomi per evitare che contagiassero qualcuno. Ciononostante l’infezione ebbe modo di diffondersi in almeno 26 paesi dove ha causato in totale 774 vittime accertate.

La MERS invece non si è molto diffusa sia per l’alta mortalità, fino al 50% dei contagiati, ma soprattutto per non aver dimostrato un’alta contagiosità, circa 2400 casi in totale che hanno causato circa 838 decessi, ed è rimasta prevalentemente confinata in medio oriente, suo luogo di origine

Il virus SARS-Cov2, agente del Covid 19, ha mostrato caratteristiche molto subdole che gli permettono una spaventosa diffusibilità, in ulteriore accentuazione a mano a mano che si affacciano nuove varianti apparentemente ancora più diffusibili, le quali tendono a sostituirsi abbastanza rapidamente ai precedenti virus proprio per la loro maggiore velocità infettante.

Il Covid-19 ha una mortalità molto inferiore rispetto a SARS e MERS. Infatti muore fra il 2 e il 3% della popolazione infettata (il cosiddetto tasso di letalità), fra l’altro distribuita in maniera disomogenea fra i malati. Infatti la mortalità è praticamente zero fino a 40 anni, bassa fra i 40 ed i 60, significativa fino a 70, per poi esplodere nelle età successive nelle quali si può arrivare ad oltre il 35%. Altri fattori che espongono gli individui infettati ad un decorso più grave della malattia sono la presenza di obesità o di pluripatologie croniche. La malattia si presenta molto più mite e invariabilmente autolimitante nei giovani, tanto che questi ultimi mostrano con una certa frequenza una scarsa cognizione della gravità della pandemia e tendono nel tempo ad abbandonare le misure volte al suo contenimento, come indossare le mascherine ed evitare gli assembramenti, facendo ovviamente il gioco del virus.

Al pari di moltissime altre malattie infettive virali, come l’influenza, il morbillo, la varicella e così via, il virus del Covid viene diffuso molto efficacemente negli ultimi due giorni di incubazione prima che le persone infettate sviluppino i sintomi. Un fatto di questa portata è già sufficiente per mantenere attiva qualsiasi epidemia, tuttavia il Covid non si accontenta di questo, che è già un grave problema, ma assesta un colpo da maestro: ha la capacità di causare una infezione inapparente in numerosissimi soggetti, i quali, pur non sviluppando mai alcun sintomo, mantengono per diversi giorni una bassa ma presente capacità infettante. L’esperienza dei tamponi a tappeto ha dimostrato che i soggetti asintomatici sono oltre la metà (ufficialmente il 58%) dei Covid positivi e questo ovviamente rappresenta un enorme problema epidemiologico ed una grande facilitazione per il virus se consideriamo che queste persone spesso non le identifichiamo o se lo facciamo, spesso arriviamo in ritardo. Sarebbe anche stato calcolato che il contributo degli asintomatici nella diffusione del virus sarebbe di oltre il 40%, una bella percentuale!

Immagino che a questo punto siano chiari i motivi per cui il virus SARS-Cov2, il fuoriclasse di tutti i virus pandemici, in pochi mesi abbia causato un’epidemia che si è mostruosamente diffusa nel mondo a dispetto di tutte le misure di contenimento adottate dalle varie nazioni, causando dall’inizio al 22 gennaio (dati OMS) 96.012.792 casi confermati con 2.075.870 morti. Il confronto con i dati di SARS e MERS è impietoso.

Il capitolo che uscirà giovedì prossimo riguarderà le caratteristiche della malattia e le nostre possibili difese.

giovedì 21 gennaio 2021

Covid 19 - Briciole di Cultura

Capitolo 1: Opinioni, scienza e… opinioni di scienziati

 di Roberto Budassi - Medico pediatra

Chi come me non è più giovanissimo, certamente ricorderà i successi di Azzurra all’America’s Cup nel 1983, splendida barca armata da Gianni Agnelli e condotta dallo skipper Cino Ricci. Il seguito fu tale che era diventato comune incontrare gente che discuteva animatamente di virate, strambate, bolina e così via come se tutti fossero diventati esperti di regate sportive ad alto livello, così come qualche anno più tardi, in un momento di grande espansione finanziaria, improbabili esperti in azioni, guadagni e speculazioni discutevano animatamente nei bar, dai parrucchieri e un po’ ovunque. Fino al crollo della borsa del 1987 e alla mancata vittoria in coppa di Azzurra.



Ai giorni nostri la tremenda situazione pandemica ha trasformato una certa parte della popolazione in virologi, immunologi, epidemiologi e clinici che si credono così esperti da mettere sullo stesso piano il loro inconsapevole parere “scientifico” con quello di chi passa una vita a studiare ultra complesse problematiche nel campo della virologia e della biologia in generale. Nel segno dei tempi, il dibattito trova la sede più adeguata nei molti canali del web, dove può esprimere il meglio ed il peggio di sé.
Certo è che la scienza in numerose occasioni non ha dato dimostrazione di saper correttamente trasmettere le conoscenze alla popolazione generale, e ancor più ha dato prova di non saper diffondere ciò che non si conosce appieno e che pertanto è argomento di discussione fra gli addetti ai lavori. In altre parole il dibattito scientifico è stato spostato sui media, ma senza una adeguata preparazione degli attori affinché non si creino false percezioni nella popolazione generale. Ad esempio sul Covid, specialmente nei primi mesi della pandemia, molti scienziati che sono stati interpellati di volta in volta hanno espresso pareri a volte contrastanti che in diverse occasioni sono stati interpretati come litigi fra scienziati che “non sono nemmeno d’accordo fra di loro”. Così il risultato meno grave è stato di creare confusione ed il più grave di ingenerare sfiducia nei ricercatori e nella scienza in genere. Tutto questo viene grandemente amplificato perché riportato a sfinimento sui social media.
È del tutto normale che chiunque non fosse avvezzo alla discussione scientifica, che a volte si fa anche aspra, potrebbe trovare difficoltà a coglierne il vero significato. In queste condizioni è facile perdere la fiducia nelle istituzioni scientifiche ed abbracciare strampalate teorie complottiste.
Tuttavia è innegabile che l’esposizione mediatica dei vari esperti, virologi, immunologi, epidemiologi e così via, sia stata oltremodo eccessiva e non abbia giovato alla trasmissione delle conoscenze. Infatti riuscire a mantenere un buon livello comunicativo quando quotidianamente si è “costretti” o invitati a rilasciare dichiarazioni potrebbe essere difficile, specie quando si tratta di persone abituate più al pragmatismo che alle pubbliche relazioni. Qui di seguito alcuni esempi molto noti ed esplicativi.
Nel corso di un’intervista rilasciata all’inizio dello scorso febbraio nel corso di un noto programma RAI, il prof. Burioni affermò categoricamente che il rischio di contrarre il virus in Italia fosse zero. Quel che è avvenuto un mese dopo lo smentì alla grande.  Burioni subì feroci critiche e nell’opinione pubblica la sua credibilità ne soffrì alquanto. In realtà le dichiarazioni di Burioni erano molto più articolate dello striminzito riassunto che è girato sui media e soprattutto sui social, erano improntate ad una grande prudenza e soprattutto dettate da quanto allora si conosceva di quel virus. A poco servì chiarire che l’affermazione era relativa ad un momento storico in cui non c’era alcuna evidenza della circolazione del virus in Europa, che l’unico caso verificatosi in Italia e importato dalla Cina era stato prontamente intercettato, e che si era speranzosi che la Cina avrebbe saputo confinare il contagio nella regione di Wuhan. Ora sappiamo quanto le nostre conoscenze di allora fossero scarse: un virus completamente nuovo, dal comportamento clinico ed epidemiologico assolutamente imprevedibile, che nei mesi successivi avrebbe messo in ginocchio qualsiasi Nazione superandone tutte le difese. Di quell’intervista restò a futura memoria solo l’affermazione di cui sopra, per la quale Burioni subì in seguito pesanti conseguenze con attacchi sconsiderati sui social ed anche una lunga serie di calunnie, che nulla avevano a che vedere con le sue dichiarazioni.
Secondo episodio. Nel corso del mese di maggio, dopo un duro lockdown ed una lenta e cauta ripresa, il prof. Zangrillo vide progressivamente svuotarsi di pazienti la divisione di terapia intensiva dell’ospedale San Raffaele da lui diretta e soprattutto notò che i ricoveri per Covid nel suo ospedale erano del tutto cessati. Inoltre i pochi che si rivolgevano al pronto soccorso per Covid presentavano forme molto lievi e il più delle volte venivano subito rimandati a casa. Zangrillo si sentì autorizzato ad affermare pubblicamente che il virus, dal suo molto particolare punto di vista, fosse “clinicamente morto”, ma ovviamente si sbagliava. I primi a criticarlo furono proprio diversi altri ricercatori, medici e non, che trovarono quanto meno ardita questa affermazione. Quando ripresero i contagi e ricomparvero i malati gravi, Zangrillo si difese affermando che intendeva dire che in quel momento il virus non presentava caratteristiche che lo rendessero “clinicamente” pericoloso, ma ormai il danno mediatico di questa innegabile caduta di stile era compiuto. Per fortuna il prof. Zangrillo non ha dovuto subire attacchi violenti come accadde al prof. Burioni.
“Senza dati a disposizione, io non farei il primo vaccino che dovesse arrivare a gennaio contro il Covid”. Con questa dichiarazione rilasciata a Focus Live, il festival della divulgazione scientifica di Focus, il prof. Crisanti ha rischiato di essere annoverato fra gli antivaccinisti e comunque ha dato adito a grosse speculazioni da parte dei no-vax. Ovviamente le sue intenzioni erano ben diverse e le sue affermazioni erano perfettamente in linea con il metodo scientifico, né volevano screditare i vaccini contro il Covid che a breve sarebbero stati approvati, ma dal punto di vista della comunicazione scientifica, specie per le modalità delle sue esternazioni e per il contesto in cui le rilasciò, l’episodio non rappresentò certamente un esempio edificante. Tanto che Crisanti ha dovuto sottoporsi alla vaccinazione anti-Covid in diretta streaming per mettere a tacere le speculazioni dei no-vax. 




Per raggiungere una vera e sana consapevolezza sulla situazione attuale in tema Covid 19, dovremmo innanzitutto scrollarci di dosso tutta la grande mole di notizie, contronotizie e discussioni che hanno caratterizzato il periodo pandemico e renderci conto che in questi pochi mesi dall’inizio della pandemia la ricerca ha fatto passi giganteschi, come mai prima d’ora in questo campo. Nei prossimi quatto capitoli, che verranno pubblicati uno ogni giovedì, parleremo di alcuni aspetti fondamentali di questa pandemia, con semplici e importanti informazioni, quelle dalle quali non si può prescindere. Inizieremo con un post dal titolo Una macchina perfetta in cui cercherò di illustrare le principali caratteristiche biologiche del coronavirus.


domenica 17 gennaio 2021

Riabilitare la cultura del dato in quattro mosse

 di Pierluigi Venturi


Nell’ultimo articolo del 15 Novembre 2020 c’eravamo lasciati con l’impegno di continuare a discutere di Cultura del dato. In particolare, mi ero impegnato ad indicare alcuni rimedi per riabilitare o inserire, all’interno di un’impresa, una cultura orientata al dato, laddove fosse assente.

Per avere un engagement positivo di tutti gli attori aziendali, occorre utilizzare metriche che facciano discutere. Può sembrare un’affermazione lapalissiana, ma per molti non lo è.  Del resto la cultura nasce proprio dallo studio, dalla sperimentazione, dal ragionamento, dal confronto e dalla discussione su un determinato argomento. Indicatori che non fanno discutere portano un modesto risultato in termini culturali.  Possono far parte del bagaglio di conoscenze e di competenze personali dei singoli, ma per trasformarsi in risorsa aziendale devono essere condivisi e produrre discussioni. 


Come sempre, ogni caso è un caso a sé ma il questionario sulla cultura del dato proposto nel precedente articolo è un buon punto di partenza. A mio parere, è sempre opportuno partire dalla prima domanda del questionario che vale la pena ripetere qui di seguito: Hai consapevolezza di come impieghi il tuo tempo? Sapresti fornire una prova per singola attività in 5 minuti? In realtà le domande sono due. Infatti, chiedere una prova della propria organizzazione non significa una mancanza di fiducia nei confronti dell’intervistato, ma serve a misurarne la consapevolezza. Se non utilizza un sistema di monitoraggio delle proprie attività, evidentemente, il suo livello di consapevolezza si basa sulla percezione e non su dei dati.

Nelle mie esperienze personali di manager prima e di imprenditore poi, chiedevo saltuariamente ai miei collaboratori di fare un'analisi su come spendessero il loro tempo, descrivendo ogni singola attività giornaliera con il peso in termini di minuti ed ore, le attività settimanali, le scadenze mensili e anche quelle ricorrenti nell’anno. Pretendevo che lo mettessero su Excel e ci ragionassero per almeno 7 giorni.  Al termine della loro riflessione volevo che il file mi venisse consegnato, per una mia valutazione. Successivamente procedevo con un confronto individuale che potesse stabilire un percorso al fine di rendere più efficiente ed efficace la quotidianità. Nei casi più complessi ed articolati, dopo gli incontri individuali, facevo seguire un breve incontro per risignificare i processi all’interno del team.

Prima mossa. Il tempo è la risorsa per antonomasia che deve essere costantemente misurata, perché non solo è scarsa e si presta ad usi alternativi, ma non è possibile immagazzinarla ed è facilmente deperibile. Quello che non possiamo fare oggi, non lo potremo recuperare domani. Per farlo dovremo, semplicemente, rinunciare a ciò che avremmo potuto fare domani o impiegare un collaboratore al nostro posto. Avere la consapevolezza di come ogni componente del sistema azienda spenda il proprio tempo è il primo passo di qualsiasi percorso di efficientamento e/o di programmazione e riorganizzazione aziendale. Il fine è sempre quello di portare maggiore valore all’azienda e quindi stabilire il classico 20% delle attività che portano l’80% dei risultati. Da qui inizia il ragionamento su come migliorare le performance relativamente al tempo impiegato per svolgere il 20% delle attività, ma anche e, soprattutto, per il restante 80% che, evidentemente, si presta a diverse interpretazioni. In sostanza è da qui che comincia la riabilitazione alla cultura del dato (cfr. Figura 1). Occorre ragionare sulle piccole porzioni di attività che producono effetti positivi anche su quegli aspetti cognitivi come la consapevolezza e la focalizzazione, così importanti per un percorso di crescita in generale e così fondamentali in un piano riabilitativo della cultura del dato.
Figura 1 - Principio di Pareto modificato nella gestione del tempo



Una volta iniziato il percorso di autovalutazione, solitamente le persone più propositive cercano di analizzare tutti i dettagli e facilmente si renderanno conto di quanto sia importante andare oltre il 20% di attività che producono l’80% del risultato e verificare quanto effettivamente le restanti attività portino in termine di valore. In definitiva occorre stabilire quelle attività che sono classificabili come mere perdite di tempo e portatrici di nessun risultato.  In figura 1 ho ipotizzato che anch’esse rappresentino un 20% delle attività totali. Durante il percorso di autovalutazione nella gestione del tempo, quindi, si possono individuare sia le attività più importanti che portano maggiore valore, sia quelle che possono/devono essere eliminate. Utilizzare il 20% del tempo che prima era impegnato a fare cose inutili, a pensare come migliorare il processo produttivo o qualsiasi altro aspetto del sistema impresa, è un buon modo per riabilitare la cultura del dato e la crescita dell’impresa in generale.

La seconda mossa da fare per riabilitare la cultura del dato, dopo la presa di coscienza di come viene impiegato il tempo singolarmente, è quello di procedere con la programmazione delle attività. L’obiettivo è quello di stimolare tutti gli operatori a formulare stime ed affinare ulteriormente la loro consapevolezza su come impiegano il proprio tempo. Solitamente i settori aziendali più ostici al “gioco delle stime” sono gli uffici tecnici e quelli creativi dove il risultato dipende da una serie di fattori e il tempo è solo uno degli aspetti che entrano in gioco. Quando si fa una programmazione che parte dalle stime dei singoli si va a toccare un aspetto facente parte degli habitus mentali delle persone che operano all’interno di un’impresa: l’assunzione di responsabilità. Occorre che l’imprenditore/leader sia consapevole che per ottenere un risultato in termini di programmazione, aspetto fondamentale per ogni altra attività aziendale, dovrà fare i conti prima di ogni altra cosa (prima ancora dell’utilizzo dello strumento gestionale) con la capacità di assumersi delle responsabilità da parte dei singoli. Potrà incontrare persone superficiali che faranno stime completamente sballate; altre che non ci dormiranno la notte per fornire dati credibili ed altre ancora che cercheranno di sfuggire dal gioco delle stime e quindi dall’assunzione di responsabilità. In ogni caso è solo attraverso un programma che può iniziare il confronto sulla strada da percorrere per il miglioramento. È l’unica possibilità di affrontare la discussione in modo oggettivo, lasciando le vicende dei singoli a margine della stessa discussione. 
Per coloro i quali si siano impegnati nel “gioco delle stime” ci sono serie possibilità che all’inizio si vada incontro a delle sonore delusioni. Per molti sarà motivo di stimolo ma per altri solo il pretesto per trovare giustificazioni di non continuare a fare stime e, quindi a non assumersi delle responsabilità.

La terza mossa decisiva per la riabilitazione della cultura del dato è il monitoraggio del programma e “l’individuazione dei famosi indicatori/indici che fanno discutere”. Siamo nella fase già evidenziata, anche nel precedente articolo, che per aumentare la cultura del dato in un’azienda occorre procedere per gradi e non sempre il numero degli indicatori/indici utilizzati è sintomo di diffusione della stessa. La cultura del dato presuppone un approccio diffuso in azienda. Ogni settore, oltre agli indicatori di monitoraggio condivisi, ne avrà di più specifici che utilizzerà al proprio interno. Ogni caso è un caso a sé ma alcuni indicatori/indici non possono proprio mancare. Ad esempio: il fatturato per addetto realizzato in un determinato periodo,  il fatturato “spedito” giornalmente ( utile indicatore per un magazziniere) se si tratta di un’impresa di produzione, il semplice fatturato se si tratta di un’impresa commerciale; la consapevolezza della marginalità e del costo orario; quanti preventivi arrivano, quanti e in che tempi vengono convertiti in ordini; il valore e la qualità del magazzino; l’incidenza delle principali voci di costo del conto economico; e tanto altro. L’altro aspetto che certifica la diffusione del dato è il livello di discussione. Di seguito due esempi che simulano una discussione sui  motivi per i quali il ROE e il MOL diminuiscono (cfr. Figura 2 e Figura 3).

Fig. 2 Riflessioni sui motivi della diminuzione del ROE


Fig. 3 - Riflessioni sulle ragioni di variazione del MOL



Gli esempi di riflessione sopra riportati rappresentano il punto di partenza a cui dovranno seguire maggiori approfondimenti e azioni concrete per il miglioramento. Ad esempio un recupero della marginalità passa attraverso una molteplicità di azioni. La prima tra tutte è quella di ragionare sul margine mix. Comprendere la composizione delle vendite di un’impresa è un passaggio fondamentale per poter compiere azioni che incidano sul margine (cfr. Tabella 1). In tabella 2 ho riportato un’ipotetica azione di pilotaggio del margine agendo solamente sul mix delle quantità prodotte e non sugli altri elementi che possono incidere sul risultato (prezzi di acquisto, prezzi di vendita e quantità prodotte complessive e/o un mix di tutte le componenti insieme).

Tabella 1



Tabella 2

La discussione dei dati alimenta la cultura, tuttavia occorre comprendere anche le modalità della discussione e gli strumenti di gestione che vengono utilizzati. Vale a dire: esistono report giornalieri, settimanali, mensili in cui vengono valutati i dati? Inoltre, sono accompagnati da un regolare confronto all’interno del Team o solo se il workflow operativo lo consente? Le azioni che seguono sono decise in team, individualmente e/o devono attendere l’autorizzazione del responsabile?
Il Timing nel reperimento dei dati e la qualità degli stessi, in termini di affidabilità e di facile lettura, fanno tutta la differenza del mondo sia per l’efficacia delle azioni correttive che per stimolare la crescita della cultura del dato. In questo caso i gestionali e gli strumenti utilizzati sono fondamentali per ridurre i tempi della ricerca delle informazioni.

La quarta mossa per riabilitare la cultura del dato è rappresentata dallo stimolo alla sperimentazione al fine di prendere decisioni più consapevoli. Ho già detto, in un precedente articolo, quanto sia importante a livello di mindset strategico utilizzare la sperimentazione. Ora, se si vuole davvero riabilitare la cultura del dato occorre procedere con “lo sperimentare la sperimentazione”. Sembra un gioco di parole, ma non lo è! Si tratta di abbattere alcune resistenze psicologiche che fanno parte dei sintomi classici dell’Artigianite (patologia che colpisce ogni tipo d’impresa e di cui ne discuteremo in un prossimo articolo). Occorre, dunque, che l’imprenditore/leader si sforzi di sperimentare in prima persona e che stimoli all’interno della propria organizzazione un tale percorso.  Come? Facendo sperimentazione e aggiustando il tiro attraverso l’analisi degli errori!

È evidente che le quattro mosse rappresentino solamente l'inizio. 

domenica 10 gennaio 2021

Brefotrofio

 di Giovanni Pelosi

(Foto di Patrizia Renzoni)

La consegna dei neonati al conservatorio di San Michele, avveniva, come già detto, o attraverso la Ruota, che verrà soppressa il primo luglio del 1873, o direttamente, specie se provenivano dalle varie località fuori Fano, inviati da sindaci o parroci che segnalavano o meno l’avvenuto battesimo. Nel primo caso era il suono di una campanella che faceva accorrere subito la nutrice che disponeva di una camera vicino alla Ruota.

A sua disposizione, tra gli altri minuti oggetti, aveva un caldaro con catena, una graticola con treppiedi per preparare il cibo, un mastello con tavola per lavare, un pannicello bianco e uno rosa con una cuffia per il battesimo, una pila per l’acqua santa, otto coperte piccole di diversi colori, un letto e due sedie di sgarza. Tutt’altro che rari i casi in cui la balia si ritrovava tra le braccia neonati morti o in condizioni pietose: “poco distante da Porta Giulia fu ritrovata una creatura nata allora, involta in uno straccio, posta per terra  e pioveva dirottamente”, “verso le dieci pomeridiane si ritrovò un cestello fatto di vimini con un infante in pannolini laceri, con una cuffietta in testa guarnita di un merletto ordinario, un panno lacero di bavella per coperta, una lacera punta di fazzoletto rosa fiorato di bianco e sotto la testa un piccolo cuscinetto riempito con foglie di formentone”.


A volte i neonati portavano addosso tra i miseri stracci che li ricoprivano, vari segni di riconoscimento: medaglie, fedi di battesimo, parti di monete, immagini sacre, un rosario. 


 Il tutto lasciava intendere l’intenzione di un futuro riconoscimento da parte dei propri genitori. Non mancavano, comunque, episodi di volontà infanticida dal momento che diversi venivano lasciati anche in luoghi non particolarmente frequentati come i parapetti di muri e lungo la spiaggia.

Ad ogni esposto veniva mantenuto il nome se riportato al momento della consegna, diversamente anche il cognome si ricavava dal libro dei Santi, da quello dei Martiri (il “Martirologio”) o dal mondo vegetale, animale o minerale; da qui i vari Orti, Civetti, Cetrioli, Pratri, Volpi, Porfidi… Dopo un breve periodo di allattamento i neonati venivano affidati a nutrici esterne che venivano scelte dopo una breve visita per la loro giovane età, per qualità e quantità di latte. Ben volentieri esse si prestavano a tale compito perché ricevevano non solo un buon numero di pannolini di lino e canapa secondo le varie stagioni, il vestiario, i medicinali in caso di malattia, ma anche un contributo bimestrale in denari e diversi in natura.

Ai primi dell’800 vengono registrate 81 balie; tutte risiedevano nelle campagne in prossimità di Fano, ma non solo. IL numero più consistente si trovava nelle seguenti località: Rosciano 12, Cartoceto 12, San Cesareo 11, Ferretto 11, San Costanzo 10, Bellocchi 8, Mondavio 1, Novilara 1.

Gli esposti rimanevano presso le loro balie fino al settimo anno di età, poi venivano dati in adozione a loro stesse o ad altre famiglie ricevendo tutte un contributo in danaro. Le femmine rimanevano fino al loro matrimonio, i maschi fino al 16^ anno; dopo non erano più sotto la tutela del Conservatorio.

Differenti destini

Piuttosto frequentemente, i maschi adottati in campagna, vi rimanevano come garzoni, venivano addestrati nei vari lavori colonici consentendo ai mezzadri di poter contare su una forza lavoro che, anche se giovane, doveva adeguarsi alle loro condizioni di vita,. Meno consistente era il numero di quelli che venivano adottati in città per essere avviati ad imparare un mestiere quale il sarto, il falegname, il fabbro; a volte però, considerato che non percepivano alcun compenso, andavano ad ingrossare le file dei vagabondi imparando “le arti più infami in danno della loro anima perdendosi nei maggiori vizi”.

Le esposte godevano, invece, di una maggiore cura; quelle che non potevano essere collocate in campagna o in città per problemi di salute, rimanevano al Conservatorio di San Michele, si occupavano di servizi interni, venivano avviate alla lettura e alla scrittura e due volte alla settimana si recavano presso l’orfanotrofio femminile a tale scopo. Potevano comunque rimanere nel brefotrofio vita natural durante a meno che non si scegliesse la via del monastero o quella del matrimonio che poi costituiva la meta finale per il tipo di educazione ricevuta. Per le esposte, il lavoro non costituiva necessariamente un passaggio obbligato per l’inserimento sociale; se adottate in città diventavano serve e impiegate nei lavori più umili e, se presso le famiglie contadine, oltre ai lavori in casa, venivano mandate nei campi. Non doveva essere facile per queste fanciulle, abituarsi fin dalla più tenera età a condurre tale vita, per cui diverse vi rinunceranno ritornando al Conservatorio, altre passeranno da un padrone all’altro. Non mancano casi di resistenza ad adattarsi a tale sorte: Balda, per la quarta volta, verrà consegnata all’originaria famiglia di Mombaroccio e a lei verrà richiesta “soggezione, obbedienza e l’obbligo di adempiere ai suoi doveri se non voleva essere mortificata”; la stessa preferirà tornarsene nel brefotrofio e lì vi morirà.  Anche la condizione di serva in città, non sempre le poneva in una posizione privilegiata; verranno nel corso dei tempi segnalati vari casi di vero e proprio sfruttamento, diverse non percepivano salario, non sempre erano fornite di vestiario adeguato o di sufficiente cibo. Era, in verità, previsto un atto scritturale che impegnava le famiglie che chiedevano le esposte, a servirsi della loro casa o dare un sufficiente salario, fornirle di quanto poteva servire per i loro bisogni e trattarle con il dovuto rispetto. Quando poi il conservatorio procedeva ad una verifica, il quadro che si presentava non era sempre dei migliori; ecco alcuni racconti: l’esposta Bartolomea “sono stata con il signor Lanci 9 mesi e credo dover aver non so più quanto”; Francesca “sono stata con una donna Fenice Brizia e quando me ne partii restò a dare quindici giorni e ne ho avuti dieci”; Margarita “sono stata con il signor Flaminio Gisberti otto mesi e me comprò un panigello di bambagia con doi para di scarpe e non ho avuto altro, con il signor Averardo Lanci doi anni et ho avuto ora una cosa ora un’altra e non credo essere soddisfatta”