domenica 10 gennaio 2021

Brefotrofio

 di Giovanni Pelosi

(Foto di Patrizia Renzoni)

La consegna dei neonati al conservatorio di San Michele, avveniva, come già detto, o attraverso la Ruota, che verrà soppressa il primo luglio del 1873, o direttamente, specie se provenivano dalle varie località fuori Fano, inviati da sindaci o parroci che segnalavano o meno l’avvenuto battesimo. Nel primo caso era il suono di una campanella che faceva accorrere subito la nutrice che disponeva di una camera vicino alla Ruota.

A sua disposizione, tra gli altri minuti oggetti, aveva un caldaro con catena, una graticola con treppiedi per preparare il cibo, un mastello con tavola per lavare, un pannicello bianco e uno rosa con una cuffia per il battesimo, una pila per l’acqua santa, otto coperte piccole di diversi colori, un letto e due sedie di sgarza. Tutt’altro che rari i casi in cui la balia si ritrovava tra le braccia neonati morti o in condizioni pietose: “poco distante da Porta Giulia fu ritrovata una creatura nata allora, involta in uno straccio, posta per terra  e pioveva dirottamente”, “verso le dieci pomeridiane si ritrovò un cestello fatto di vimini con un infante in pannolini laceri, con una cuffietta in testa guarnita di un merletto ordinario, un panno lacero di bavella per coperta, una lacera punta di fazzoletto rosa fiorato di bianco e sotto la testa un piccolo cuscinetto riempito con foglie di formentone”.


A volte i neonati portavano addosso tra i miseri stracci che li ricoprivano, vari segni di riconoscimento: medaglie, fedi di battesimo, parti di monete, immagini sacre, un rosario. 


 Il tutto lasciava intendere l’intenzione di un futuro riconoscimento da parte dei propri genitori. Non mancavano, comunque, episodi di volontà infanticida dal momento che diversi venivano lasciati anche in luoghi non particolarmente frequentati come i parapetti di muri e lungo la spiaggia.

Ad ogni esposto veniva mantenuto il nome se riportato al momento della consegna, diversamente anche il cognome si ricavava dal libro dei Santi, da quello dei Martiri (il “Martirologio”) o dal mondo vegetale, animale o minerale; da qui i vari Orti, Civetti, Cetrioli, Pratri, Volpi, Porfidi… Dopo un breve periodo di allattamento i neonati venivano affidati a nutrici esterne che venivano scelte dopo una breve visita per la loro giovane età, per qualità e quantità di latte. Ben volentieri esse si prestavano a tale compito perché ricevevano non solo un buon numero di pannolini di lino e canapa secondo le varie stagioni, il vestiario, i medicinali in caso di malattia, ma anche un contributo bimestrale in denari e diversi in natura.

Ai primi dell’800 vengono registrate 81 balie; tutte risiedevano nelle campagne in prossimità di Fano, ma non solo. IL numero più consistente si trovava nelle seguenti località: Rosciano 12, Cartoceto 12, San Cesareo 11, Ferretto 11, San Costanzo 10, Bellocchi 8, Mondavio 1, Novilara 1.

Gli esposti rimanevano presso le loro balie fino al settimo anno di età, poi venivano dati in adozione a loro stesse o ad altre famiglie ricevendo tutte un contributo in danaro. Le femmine rimanevano fino al loro matrimonio, i maschi fino al 16^ anno; dopo non erano più sotto la tutela del Conservatorio.

Differenti destini

Piuttosto frequentemente, i maschi adottati in campagna, vi rimanevano come garzoni, venivano addestrati nei vari lavori colonici consentendo ai mezzadri di poter contare su una forza lavoro che, anche se giovane, doveva adeguarsi alle loro condizioni di vita,. Meno consistente era il numero di quelli che venivano adottati in città per essere avviati ad imparare un mestiere quale il sarto, il falegname, il fabbro; a volte però, considerato che non percepivano alcun compenso, andavano ad ingrossare le file dei vagabondi imparando “le arti più infami in danno della loro anima perdendosi nei maggiori vizi”.

Le esposte godevano, invece, di una maggiore cura; quelle che non potevano essere collocate in campagna o in città per problemi di salute, rimanevano al Conservatorio di San Michele, si occupavano di servizi interni, venivano avviate alla lettura e alla scrittura e due volte alla settimana si recavano presso l’orfanotrofio femminile a tale scopo. Potevano comunque rimanere nel brefotrofio vita natural durante a meno che non si scegliesse la via del monastero o quella del matrimonio che poi costituiva la meta finale per il tipo di educazione ricevuta. Per le esposte, il lavoro non costituiva necessariamente un passaggio obbligato per l’inserimento sociale; se adottate in città diventavano serve e impiegate nei lavori più umili e, se presso le famiglie contadine, oltre ai lavori in casa, venivano mandate nei campi. Non doveva essere facile per queste fanciulle, abituarsi fin dalla più tenera età a condurre tale vita, per cui diverse vi rinunceranno ritornando al Conservatorio, altre passeranno da un padrone all’altro. Non mancano casi di resistenza ad adattarsi a tale sorte: Balda, per la quarta volta, verrà consegnata all’originaria famiglia di Mombaroccio e a lei verrà richiesta “soggezione, obbedienza e l’obbligo di adempiere ai suoi doveri se non voleva essere mortificata”; la stessa preferirà tornarsene nel brefotrofio e lì vi morirà.  Anche la condizione di serva in città, non sempre le poneva in una posizione privilegiata; verranno nel corso dei tempi segnalati vari casi di vero e proprio sfruttamento, diverse non percepivano salario, non sempre erano fornite di vestiario adeguato o di sufficiente cibo. Era, in verità, previsto un atto scritturale che impegnava le famiglie che chiedevano le esposte, a servirsi della loro casa o dare un sufficiente salario, fornirle di quanto poteva servire per i loro bisogni e trattarle con il dovuto rispetto. Quando poi il conservatorio procedeva ad una verifica, il quadro che si presentava non era sempre dei migliori; ecco alcuni racconti: l’esposta Bartolomea “sono stata con il signor Lanci 9 mesi e credo dover aver non so più quanto”; Francesca “sono stata con una donna Fenice Brizia e quando me ne partii restò a dare quindici giorni e ne ho avuti dieci”; Margarita “sono stata con il signor Flaminio Gisberti otto mesi e me comprò un panigello di bambagia con doi para di scarpe e non ho avuto altro, con il signor Averardo Lanci doi anni et ho avuto ora una cosa ora un’altra e non credo essere soddisfatta”

1 commento:

  1. Nel terzo volume dell'opera «Dizionario corografico dell'Italia compilato per cura del prof. Amato Amati» (Milano, Francesco Vallardi editore, 1871), l'articolo dedicato a Fano comprende, alle pp. 606-607, questo brano relativo alle istituzioni di beneficenza: «Quanto alla beneficenza si contano in Fano dieci pii istituti, i principali dei quali sono i seguenti: la pia azienda Santa Maria, dotata di un reddito annuo di L. 13,322; 1'ospedale degli esposti per ambi i sessi, che gode di una rendita di L. 16,891; l'ospedale civile, la cui rendita è di L. 11,173; l'orfanotrofio femminile, istituito nel 1597, con un reddito di L. 18,500; l'orfanotrofio maschile, fondata nel 1650, con un reddito di L. 7870. Gli altri istituti sono la pia eredità Nolfi, la pia eredità Zanchi, l'eredità Daniele, la pia eredità Buffi, e il monte di Pietà».
    La situazione è riferita al 1862, quando la città conta «6901 abitanti, di cui 3528 maschi, 3373 femmine, e conta 1565 famiglie, 1038 case abitate e 11 case vuote». I due orfanotrofi di Fano raccoglievano esposti provenienti anche dal contado, o di provenienza sconosciuta e abbandonati nel territorio o direttamente alla «ruota» di Fano.
    In tutta la documentazione a stampa e di archivio relativa al periodo fra il Seicento e l'Ottocento gli orfanotrofi occupano un posto importante fra le istituzioni di beneficenza. È il lungo periodo di passaggio fra la precedente carità privata e la successiva organizzazione statale delle istituzioni che si occupano dei bambini abbandonati. È il periodo in cui la carità privata, attraverso l'opera della Chiesa, delle municipalità e dei ricchi benefattori privati, costruisce una rete pubblica di istituzioni di beneficienza.

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