di Lele Roberti
- g 400 orecchiette fresche
- g 400 broccoli
- g 40 burro
- g 20 farina
- 1/4 latte
- n 1 acciuga
- n 1 spicchio d'aglio
- n 1 rametto di rosmarino
- Parmigiano
Il Prof. Giovanni Pelosi |
Dopo questa deviazione,
apparente deviazione, , perché ha sempre a che fare con ciò che ci colpisce,
che esige una reazione, un agire di nuovo, un cercare di comprendere, è tempo
di riprendere l’iniziale via da cui queste riflessioni sono nate.
Dopo i primi confusi e
frenetici giorni per orientarmi in quella nuova realtà, dopo i piacevoli
colloqui con i docenti e tutto il personale, dopo aver “familiarizzato” con gli
alunni, specie quelli poco inclini allo studio o alla disciplina, un mattino la
segretaria, nel porgermi dei documenti da firmare, con un abbozzo di sorriso e
ringraziandomi per la mia gentilezza, mi disse che non aveva mai conosciuto chi
fossero i suoi genitori , che era stata lasciata in fasce al San Salvatore
finché a 11 anni venne affidata ad una famiglia di Pesaro. Mi incuriosii ancora
di più e da letture e da ricerche mi resi conto che la storia di Esposta
rientrava in una vicenda comune a tanti altri neonati: si trattava del fenomeno
dell’abbandono dell’infanzia. Ripensai, a Romolo e Remo, a Mosè; conobbero
anche loro questa pratica già diffusa tra i Romani e altri popoli e l’avvento
del cristianesimo non la limitò interessato come era al fine creativo del
matrimonio e chiese e monasteri offrirono luoghi fondamentalmente sicuri dove
lasciare gli esposti, chiamati anche “putti, gittarelli, trovatelli,
bastardelli”. Venivano abbandonati non solo nelle strutture religiose ma un po’
ovunque: davanti alle edicole, sui gradini di chiese , nelle osterie, negli
incroci di strada ma anche nelle
campagne, davanti alle case o vicino al forno dei contadini. Generalmente erano
lasciati in ore notturne per evitare il riconoscimento di chi li abbandonava.
Da figure caritatevoli venivano consegnati al brefotrofio o consegnati
direttamente attraverso la ruota: una struttura a forma cilindrica attraverso
la quale avveniva il deposito.
Nella nostra provincia erano presenti il brefotrofio di Urbino (1265), di Cagli (1549), di Pesaro (1620), di Fossombrone (1720) e di Fano che viene fatto risalire più indietro di tutti: due atti del 997 riportano la presenza di una strada denominata “della Rota”. La sede definitiva sarà l’Ospizio di S. Michele (foto)
Ospizio di San Michele |
(Continua prossimamente con un'Altra Storia...)
1 |
Hai consapevolezza di come impieghi il tuo
tempo? Sapresti fornirmi una prova per singola attività in 5 minuti? |
SI |
NO |
2 |
Hai un sistema di programmazione delle
attività che indichi chiaramente ad ogni addetto dell’azienda cosa deve fare
ogni giorno? Il programma ha una visibilità mensile? Ci sono responsabili per
ogni dipartimento che controllano l’andamento dei programmi e risolvono i
relativi problemi? |
SI |
NO |
3 |
L’azienda ha sviluppato una cultura al
feedback? Vengono forniti regolarmente i dati consuntivi delle attività
giornaliere da parte di tutti? |
SI |
NO |
4 |
La tipologia di software utilizzato per la programmazione
delle attività consente la gestione delle informazioni qualitative, oltre che
quelle quantitative e per singolo progetto? Tali informazioni sono condivise
e reperibili in 5 minuti? |
SI |
NO |
5 |
Esistono le distinte base? Sono fruibili da
tutti i dipartimenti aziendali oltre che
produzione/ufficio tecnico e approvvigionamenti? Sono disponibili in
forma da poter valutare in 10 minuti l’impatto di un’eventuale variazione di
prezzo o di quantità di alcuni componenti? |
SI |
NO |
6 |
Hai consapevolezza della marginalità per
singolo pezzo/servizio prodotto? I dati disponibili sono in un formato che
modificando alcune componenti che determinano il margine di dettaglio
(prezzi, quantità ed altro) puoi calcolare l’impatto sul budget e sui
preventivi in 10 minuti? |
SI |
NO |
7 |
Nella tua impresa è stato formalizzato un
criterio per l’elaborazione dei preventivi? E’ chiaro chi siano le persone
autorizzate a farli? Riesci ad evaderli nella stessa giornata della richiesta? |
SI |
NO |
8 |
Conosci i numeri del tuo mercato di
riferimento ( chi sono i competitors, come operano, la loro marginalità ed i
loro volumi)? |
SI |
NO |
9 |
Esiste un sistema di monitoraggio? Il
controllo andamentale rispetto al budget viene fatto giornalmente,
settimanalmente, mensilmente ed annualmente? |
SI |
NO |
10 |
Esiste un budget per singola
attività/risorsa/fatturato/segmento di mercato/cliente? |
SI |
NO |
11 |
Hai consapevolezza dei fabbisogni finanziari
che il budget di attività precedente comporta? Hai una visione finanziaria
mensilizzata per almeno un anno e/o comunque 6 mesi per mettere in atto
azioni qualora dovessi affrontare uno
sbilancio? |
SI |
NO |
12 |
Hai a disposizione degli indicatori/indici
sintetici in modo da poter verificare immediatamente se stai procedendo nella
giusta direzione? Sono condivisi con le persone interessate (vale a dire per
settore di riferimento)? |
SI |
NO |
13 |
La circolazioni delle informazioni
relativamente ai budget è diffusa in tutti i settori aziendali? Esistono
comunicazioni/informazioni formalizzate
trasversali tra settori giornalmente? |
SI |
NO |
14 |
Esiste un vero sistema qualità interno?
Fornisce con regolarità dati sulle non conformità rilevate? |
SI |
NO |
15 |
E’ stato introdotto il modello delle 8D
per la risoluzione dei problemi?
L’azienda usa il modello delle 5S al fine di ridurre gli sprechi e i costi? |
SI |
NO |
16 |
E’ stata introdotta una cultura/gestione del
rischio con lo sviluppo di scenari possibili?
Si usa la SWOT Analisys? |
SI |
NO |
Il primo scopo di un sistema di costi è quello di rappresentare la base per la fissazione di equi prezzi di vendita, cioè prezzi cui non sia imposto di assorbire quote di spese generali anormalmente elevate o anormalmente basse.
Per rispondere a questo scopo il sistema deve essere equo.
Per rispondere a questo scopo il sistema deve essere analitico.
- Nel periodo che va dall’inizio dell’esercizio fino al momento in cui l’azienda raggiunge il Punto di Pareggio, i margini di contribuzione dei prodotti venduti vengono utilizzati per recuperare i costi fissi dell’intero esercizio.
- Nel periodo che va dal momento in cui l’azienda raggiunge il Punto di Pareggio alla fine dell’esercizio, i margini di contribuzione dei prodotti venduti vengono a costituire l’utile.
Il sistema del margine di contribuzione è un vero modello economico del comportamento dei costi aziendali in quanto si sforza di individuare non solo dove si formano i costi ma anche come essi si comportano al variare del volume di produzione.
Ne deriva la sua capacità di calibrare le risposte alle domande che di volta in volta si pongono gli imprenditori permettendo ad essi di predeterminare in precisi termini quantitativi le conseguenze economiche delle varie alternative gestionali.
Proprio per il fatto di fungere da attendibile supporto alle decisioni dell’imprenditore il sistema del margine di contribuzione viene presentato come contabilità per gli imprenditori.
(Pur rimandando alle prossime pubblicazioni, ricordiamo che il Punto di Pareggio è il volume di produzione che un’azienda deve raggiungere per coprire tutti i suoi costi, senza avere né un Euro di utile né un Euro di perdita).
Se siete interessati a condividere dei vostri quesiti in merito, scrivete le vostre richieste per ricevere gratuitamente informazioni.
La prossima pubblicazione: “Applicazione del sistema del margine di contribuzione” ci rivediamo fra quindici giorni.
Il vocabolario Treccani definisce la cultura in questo modo: ”l’insieme delle cognizioni intellettuali che, acquisite attraverso lo studio, la lettura, l’esperienza, l’influenza dell’ambiente e rielaborate in modo soggettivo e autonomo diventano elemento costitutivo della personalità, contribuendo ad arricchire lo spirito, a sviluppare o migliorare le facoltà individuali, specialmente la capacità di giudizio”.
Se
trasferiamo un tale significato nel quotidiano del fare
impresa comprendiamo che la cultura della stessa non può essere
considerata come semplice sommatoria delle
culture dell’imprenditore e di tutti i soggetti che ruotano internamente
ed esternamente all'impresa. Occorre, anche, considerare come la stessa
cultura si arricchisca, quotidianamente, attraverso lo scambio delle
esperienze dei singoli e delle attività condivise. Infatti per diventare un
vero asset aziendale ha necessità di essere diffusa tra le persone che operano
per e con l'impresa. Lo studio, la formazione, la sperimentazione, la
valutazione degli errori, l’elaborazione e la rielaborazione dei progetti,
l’innovazione, l’attenzione al cambiamento, l’utilizzo degli strumenti di
gestione ed altro, sono attività che, se svolte in maniera efficace,
rappresentano i driver della crescita culturale. L’ambiente esterno influenza
notevolmente la cultura della singola impresa perché gli stimoli ad alzare
l’asticella dipendono molto dal livello di competizione che deve
affrontare, quanto sia condizionate la conoscenza delle nuove tecnologie
presenti sul mercato, da come i gusti dei consumatori possano cambiare e,
ancor più in generale, da come possano cambiare le relazioni che
influenzano il suo quotidiano.
Se
analizziamo, dunque, la storia di qualsiasi azienda e proviamo ad individuare
un significante che colleghi il suo passato con il presente ed il futuro della
stessa, ci accorgiamo che il fare impresa in qualche modo si sostanzia nel
tentativo di interpretare il cambiamento. Unica vera costante nel tempo di
qualsiasi organizzazione, in quanto la stabilità rappresenta l’eccezione.
Interpretare il cambiamento, tuttavia, non significa fare gli indovini, ma
comprendere come i fondamentali che stanno alla base di qualsiasi impresa
debbano essere costantemente risignificati ed adeguati alle mutazioni del
contesto competitivo. Ogni imprenditore/manager dovrebbe comprendere che
il tentativo di restare fermo mentre attorno a lui tutto si sta muovendo,
non gli risparmierà le noie del cambiamento, ma probabilmente gli impedirà
di ottenerne i relativi vantaggi. Smettere di studiare, di formarsi, di
sperimentare, di ripensare alle strategie, di analizzare gli errori, di cercare
nuovi vantaggi competitivi, in altre parole, smettere di arricchire la cultura
della propria impresa e di adagiarsi alla routine, significa non solo
perdere opportunità economiche, ma soprattutto accumulare un gap di
ritardo rispetto al contesto competitivo. L’imprenditore/manager deve
essere consapevole che, prima o poi, il mercato lo costringerà ad
affrontare tale ritardo ed avere un bel conto in banca potrebbe non
bastare per risolvere il problema. Sappiamo come i soldi possano
aiutare l’avvio di una crescita economica, rappresentano in molti casi il punto
di partenza, ma se l’impresa non cresce dal punto di vista culturale,
potrebbero non essere mai sufficienti. Anzi, in molti casi il problema
nasce proprio dal gap che si crea tra la crescita economica e quella culturale.
Un differenziale che potrebbe mettere l’impresa a rischio di permanenza sul
mercato, se non colmato tempestivamente.
Per
fare un esempio concreto di quanto sto dicendo, vi invito a riflettere sul
dibattito relativo alla digital transformation che da diverso tempo trova
spazio su giornali e in alcune trasmissioni televisive. In molti
evidenziano i ritardi del nostro Paese su questo tema e quanto
l’investimento nelle nuove tecnologie sia un passaggio obbligato per recuperare
tali ritardi. Tuttavia raramente si entra nel merito della questione che è
molto più complessa da come viene solitamente rappresentata. A tal proposito vi
segnalo una lettura: il report Istat 2019 che alla pagina 59 riporta
la sintesi di uno studio dello stesso Ente statistico del 2015. Studio
operato per comprendere le ragioni della cronica minore produttività delle
nostre imprese rispetto a quelle di altri Paesi europei.
Il
ragionamento relativo alla produttività ruota attorno a due concetti
fondamentali: il capitale fisico ed il capitale umano.
Il
capitale umano viene misurato a partire dai suoi due elementi portanti: il
livello di istruzione (in termini di anni di studio) e la job tenure (in
termini di anni di permanenza nell’impresa). La dotazione di capitale fisico di
una impresa è invece misurata dal valore delle immobilizzazioni materiali e
immateriali per addetto.
Lo
studio Istat sopra citato ha evidenziato, su imprese con almeno 10 dipendenti,
un legame positivo tra capitale fisico, produttività e dimensioni aziendali.
Questo aspetto non sorprende più di tanto, anche se i valori di
produttività delle imprese con una maggiore intensità di capitale sono
risultati quasi doppi rispetto alle imprese con un’intensità di capitale
inferiore. Se invece si passa a considerare il capitale umano, i dati che
sono emersi dallo stesso studio sono quasi imbarazzanti: il 77,6% delle
imprese esaminate (quelle con almeno 10 dipendenti) possiede livelli bassi di
capitale umano. La media del personale aveva appena terminato la scuola
dell’obbligo e solo in parte raggiungeva un’anzianità aziendale vicina ai 10
anni, tale da compensare in qualche modo il minore livello di istruzione.
La cosa era abbastanza omogenea su tutto il territorio nazionale: 75,9% per le
imprese del Nord-Est contro il 79,9% di quelle meridionali. Inoltre, è
abbastanza preoccupante il fatto che il fenomeno riguardi il 68,1%
degli addetti che producono il 49,7% del valore aggiunto complessivo delle
aziende con almeno 10 dipendenti e, allo stesso tempo, si estenda all’intero sistema
produttivo, rappresentando circa un terzo del valore aggiunto e degli
addetti.
Questi
dati, al di là che possa non
piacere l’espressione capitale umano, sono molto preoccupanti e dimostrano come
il gap di produttività sia legato al ritardo culturale di molte imprese
italiane. A rincarare la dose sulla questione ci sono anche le previsioni
OCSE del maggio 2019, quindi non influenzate minimamente dal Covid-19 e
non legate solo al nostro Paese, che prevedono, a livello dei 36 Paesi facenti
parte dell’organizzazione, una difficoltà da parte delle PMI di attirare le
competenze che servono per gestire questa benedetta digital Transformation.
Competenze che sono scarse sul mercato e che preferiscono organizzazioni più
Grandi e più strutturate (si veda l’articolo di Stefano Casini su INNOVATION
POST).
Tradotto nel concreto significa che il nostro Paese avrà un percorso molto più difficile, indipendentemente dal Covid-19, verso la digital transformation e verso tutti i cambiamenti che la 4° rivoluzione industriale sta proponendo. Non sarà sufficiente inserire la nuova tecnologia per recuperare i ritardi accumulati; servirà un progetto complessivo! Infatti, i contributi economici che dovrebbero arrivare dall’Europa per favorire proprio la digital transformation e più in generale la ripresa economica a seguito dello shock causato dal Covid-19, potrebbero non essere sufficienti a far recuperare il gap di produttività delle nostre imprese, se non dovessero essere accompagnati da investimenti in termini culturali. Quest’ultimi investimenti dovranno essere operati dagli imprenditori/manager delle singole imprese, perché solo loro possono conoscere la base culturale della propria impresa. Inoltre, dovranno essere realizzati indipendentemente dall’arrivo di finanziamenti, altrimenti molte nostre imprese rischiano di uscire dal mercato. La mia preoccupazione nasce soprattutto dalla considerazione che, molto probabilmente, l’asticella della competizione globale si alzerà e sarà molto più focalizzata sulla ricerca di nuovi vantaggi competitivi rispetto a quanto molte imprese non stessero già facendo. Il Covid-19 sotto certo aspetti è già, ma lo sarà ancora di più in futuro, un acceleratore di alcuni processi. Evidentemente chi è impegnato a risolvere i nuovi problemi amplificati dalle vecchie abitudini perderà terreno.
Pierluigi Venturi |
Che
fare? Come si può recuperare il gap di ritardo culturale accumulato dalla
maggioranza delle nostre PMI?
Ne parleremo nei prossimi articoli, ma nel frattempo vi posso anticipare lo schema che ho intenzione di seguire:
1.
Non farò la lista
della spesa delle cose che servirebbero da parte della Politica e delle diverse
Istituzioni Nazionali o Europee. Mi limiterò ad
invitare l’imprenditore/manager a sospendere la fase del lamento e a
focalizzarsi sulle cose che servono alla sua impresa per farla crescere.
2.
Il percorso di
crescita culturale non parte dalla formulazione di una nuova Strategia, in
quanto quest’ultima è uno
strumento di gestione condizionato dalla cultura dell’imprenditore. Ne
segue che il percorso di crescita culturale parte dall’analisi del fare
quotidiano che dovrà essere orientato a quegli elementi così ben descritti
dalla definizione di cultura operata dal vocabolario Treccani, al fine di
consentire una crescita dell’imprenditore e dei suoi collaboratori e quindi,
raggiungere l’obiettivo di una nuova Strategia.
3.
La crescita culturale
passa, a mio avviso, attraverso quattro “elementi”, strettamente collegati tra
loro che, considero fondamentali, per elaborare una strategia
aziendale capace di far fronte ai cambiamenti continui del contesto
competitivo. I quattro elementi sono: la cultura del dato; il concetto di
vantaggio competitivo; l’innovazione e la formazione continua. Tutto il
resto è un di cui che può essere compreso all’interno di uno dei quattro
elementi principali. Ovviamente la strategia non può essere considerata come
semplice sommatoria dei quattro elementi sopra citati, in quanto
presenta proprie peculiarità ma senza una crescita in termini
culturali dei quattro “elementi” evidenziati non si ha la possibilità di
formulare strategie più qualitative.
In
definitiva, la cultura, per un'impresa, è l’asset più importante perché
rappresenta l’investimento con il minor rischio di obsolescenza e se alimentata
costantemente consente all’imprenditore e ai suoi collaboratori di interpretare
meglio i cambiamenti che avvengono continuamente sul mercato.
A me piace usare spesso l’espressione: “il futuro è già iniziato”. E’ un concetto su cui insisto molto perché ciò che farà qualsiasi imprenditore domani è figlio della sua Vision, di come abbia deciso di declinarla dal punto di vista strategico e tattico, ma, soprattutto, sarà il frutto di quanto sia diffusa nella sua azienda la cultura d’impresa che ha ispirato il suo pensare.
di Luciano Giambartolomei
Giuliano Giambartolomei |
Costi variabili
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Costi fissi
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