mercoledì 18 novembre 2020

Nati e Abbandonati

 di Giovanni Pelosi

foto di Patrizia Renzoni

Il Prof. Giovanni Pelosi

Fu il mio primo anno di presidenza a Tavullia, dopo il trasferimento dalla Valcamonica, che conobbi una gentile e timida signorina: era la segretaria di quella piccola scuola media. Nel presentarci mi disse che si chiamava Esposta; rimasi un po’ interdetto, quel nome mi rimandò indietro nel tempo, ai sentieri non perduti della memoria, a quando mia madre un giorno mi disse che vicino alla nostra casa era arrivata una nuova famiglia e la signora si chiamava Esposta Germogli. Ripescato quel ricordo dissi alla non più giovane segretaria che il suo nome mi incuriosiva. Non poteva essere diversamente perché fin da adolescente ho sempre coltivato una particolare predilezione verso le parole in quanto luogo di pensiero, costruzione di mondi, incontri con l’universo, specie quelle che come un rompighiaccio spezzano il gelo dentro di noi, prendono alla gola, hanno a che fare con i sentimenti, si trasformano in poesia, in pensieri alati. Parole, pensieri che mi erano dolci come il miele per usare una espressione del profeta Ezechiele quando il Signore gli ordinò di mangiare un rotolo. Fu così che sotto la spinta di quella che i nostri padri latini chiamavano “curiositas”, presto comperai un piccolo quaderno diventato poi una rubrica che tutt’ora, malridotta e quasi lacera, conservo e vado a sfogliare e integrare con nuovi termini come “Resilienza, Sanificare, Entropia…”, ma non vi ho riportato quelli propri dei nostri giorni per far fronte al mortale Covid-19 “Recovery fund, Longform, Lockdown” che mi spaventano e, tra l’altro, hanno un suono sgradevole. Mantengono, invece, per me una grande attrazione ancora oggi termini, parole, concetti di carattere più spiccatamente sociale e politico come “Giustizia, Libertà, Pace, Tolleranza…” che hanno indirizzato il mio e il percorso di vita di molte persone. Hanno in sé una loro perenne attualità, una carica ideale ed etica che richiedono un nostro coinvolgimento e sono riassumibili in una piccola, solitaria, ma affascinante parola che è Utopia. Pur nella affievolita, ma non spenta convinzione di una sua realizzabilità, condivido il pensiero dello scrittore Eduardo Galeano: “Lei sta all’orizzonte. Mi avvicino di due passi, lei si allontana dieci passi più in là. Per quanto io cammini non la raggiungerò mai; quindi a che serve l’utopia? Serve a questo: a camminare.”

Dopo questa deviazione, apparente deviazione, , perché ha sempre a che fare con ciò che ci colpisce, che esige una reazione, un agire di nuovo, un cercare di comprendere, è tempo di riprendere l’iniziale via da cui queste riflessioni sono nate.

Dopo i primi confusi e frenetici giorni per orientarmi in quella nuova realtà, dopo i piacevoli colloqui con i docenti e tutto il personale, dopo aver “familiarizzato” con gli alunni, specie quelli poco inclini allo studio o alla disciplina, un mattino la segretaria, nel porgermi dei documenti da firmare, con un abbozzo di sorriso e ringraziandomi per la mia gentilezza, mi disse che non aveva mai conosciuto chi fossero i suoi genitori , che era stata lasciata in fasce al San Salvatore finché a 11 anni venne affidata ad una famiglia di Pesaro. Mi incuriosii ancora di più e da letture e da ricerche mi resi conto che la storia di Esposta rientrava in una vicenda comune a tanti altri neonati: si trattava del fenomeno dell’abbandono dell’infanzia. Ripensai, a Romolo e Remo, a Mosè; conobbero anche loro questa pratica già diffusa tra i Romani e altri popoli e l’avvento del cristianesimo non la limitò interessato come era al fine creativo del matrimonio e chiese e monasteri offrirono luoghi fondamentalmente sicuri dove lasciare gli esposti, chiamati anche “putti, gittarelli, trovatelli, bastardelli”. Venivano abbandonati non solo nelle strutture religiose ma un po’ ovunque: davanti alle edicole, sui gradini di chiese , nelle osterie, negli incroci di strada  ma anche nelle campagne, davanti alle case o vicino al forno dei contadini. Generalmente erano lasciati in ore notturne per evitare il riconoscimento di chi li abbandonava. Da figure caritatevoli venivano consegnati al brefotrofio o consegnati direttamente attraverso la ruota: una struttura a forma cilindrica attraverso la quale avveniva il deposito.

Nella nostra provincia erano presenti il brefotrofio di Urbino (1265), di Cagli (1549), di Pesaro (1620), di Fossombrone (1720) e di Fano che viene fatto risalire più indietro di tutti: due atti del 997 riportano la presenza di una strada denominata “della Rota”. La sede definitiva sarà l’Ospizio di S. Michele (foto)

Ospizio di San Michele 

e sulla destra dell’Arco di Augusto una pietra contiene le scritte “Eleemosynis expositorum” (foto).


(Continua prossimamente con un'Altra Storia...)


2 commenti:

  1. Il fenomeno sociale degli abbandoni di neonati è noto e trattato da molti libri. Ma forse è meno noto che la maggior parte dei bambini abbandonati moriva entro i cinque anni di età perché le condizioni di assistenza negli antichi orfanotrofi erano durissime. Dei sopravvissuti una piccola e più fortunata parte veniva adottata e i bambini equiparati ai figli naturali, un'altra parte veniva adottata ma legalmente non equiparata ai figli naturali, quindi erano allevati e avviati a un lavoro, ma privi di ogni diritto ereditario. La maggior parte veniva presa in affido, cioè i bambini erano allevati in famiglie ma trattati più come dipendenti che come figli, finché, adulti, se potevano, si formavano una loro famiglia indipendente. Nel corso dell'Ottocento crebbero gli orfanotrofi pubblici, non più dovuti alla carità di religiosi ma aperti e amministrati da amministrazioni pubbliche, comunali e statali. Questo fatto, come venne denunciato fin dalla prima metà dell'Ottocento, portò a un grave aumento dei bambini esposti perché diverse famiglie povere "collocavano" anonimamente i bambini presso questi orfanotrofi, come se fossero dei collegi, perché venissero allevati con l'intento di riprenderseli quando fossero in età da lavoro. A tal fine inserivano nel fagottello del bambino abbandonato dei segni di riconoscimento in base ai quali ritrovarli e rivendicarli come propri. Questa pratica divenne piuttosto comune e molti medici e riformatori sociali, a partire dal 1860 circa, proposero più assistenza ai poveri nelle loro case per limitare il fenomeno degli abbandoni così condizionati, che non erano veri abbandoni perché i genitori si rifacevano vivi quando il ragazzo o la ragazza arrivavano sui 12/13 anni. La storia, e l'esperienza di tanti di noi avanti con gli anni, documenta questa pratica. Anche la madre di Maria Goretti era una trovatella allevata da una famiglia contadina di Corinaldo. Io personalmente ho un "fratello di latte", ora deceduto, allevato dai miei genitori finché, all'età di 14 anni, è tornata fuori la madre a riprenderselo e, per legge, pur essendo il ragazzo e i miei genitori contrari, ottenne di riprenderselo. E lo mandò subito a lavorare e in pratica si fece mantenere da questo figlio "ritrovato". Di cognome era stato registrato come Millevolte: tipico cognome inventato per bambini abbandonati. Esposta come nome, Esposti ed Esposito come cognomi indicano un'origine analoga, ma sono molti i cognomi tipici dati ai figli abbandonati. Uno dei più comuni è Diotallevi, cioè "Dio ti allevi". Ma, col tempo, anche questi cognomi, dopo le prime generazioni, sono stati normalizzati e oggi li portano persone che da più generazioni possono esibire una regolare genealogia. Ma l'origine, più recente o più antica, è chiara. Oggi, con lo sviluppo delle adozioni legali e con la scarsità di bambini abbandonati tutto questo fenomeno sociale presenta aspetti diversi e spesso gli attuali bambini affidati non sono orfani, ma figli legittimi di genitori che, per vari motivi, non sono in grado di allevarli e quindi, a cura dei servizi sociali, vengono affidati ad altre famiglie che però mantengono i contatti con la famiglia di origine.

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  2. Grazie Luciano per questa bellissima testimonianza che approfondisce e completa il racconto del Prof. Pelosi. Ci farà piacere se continuerà a seguirci sulla nostra pagina Facebook.

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