domenica 18 ottobre 2020

La Cultura è l’asset più importante per un’impresa

di Pierluigi Venturi 

Il vocabolario Treccani definisce la cultura in questo modo: ”l’insieme delle cognizioni intellettuali che, acquisite attraverso lo studio, la lettura, l’esperienza, l’influenza dell’ambiente e rielaborate in modo soggettivo e autonomo diventano elemento costitutivo della personalità, contribuendo ad arricchire lo spirito, a sviluppare o migliorare le facoltà individuali, specialmente la capacità di giudizio”. 


Se trasferiamo un tale significato nel quotidiano del fare impresa comprendiamo che la cultura della stessa non può essere considerata come semplice sommatoria delle culture dell’imprenditore e di tutti i soggetti che ruotano internamente ed esternamente all'impresa. Occorre, anche, considerare come la stessa cultura si arricchisca, quotidianamente, attraverso lo scambio delle esperienze dei singoli e delle attività condivise. Infatti per diventare un vero asset aziendale ha necessità di essere diffusa tra le persone che operano per e con l'impresa. Lo studio, la formazione, la sperimentazione, la valutazione degli errori, l’elaborazione e la rielaborazione dei progetti, l’innovazione, l’attenzione al cambiamento, l’utilizzo degli strumenti di gestione ed altro, sono attività che, se svolte in maniera efficace, rappresentano i driver della crescita culturale. L’ambiente esterno influenza notevolmente la cultura della singola impresa perché gli stimoli ad alzare l’asticella dipendono molto dal livello di competizione che deve affrontare, quanto sia condizionate la conoscenza delle nuove tecnologie presenti sul mercato, da come i gusti dei consumatori possano cambiare e, ancor più in generale, da come possano cambiare le relazioni che influenzano il suo quotidiano. 

 

Se analizziamo, dunque, la storia di qualsiasi azienda e proviamo ad individuare un significante che colleghi il suo passato con il presente ed il futuro della stessa, ci accorgiamo che il fare impresa in qualche modo si sostanzia nel tentativo di interpretare il cambiamento. Unica vera costante nel tempo di qualsiasi organizzazione, in quanto la stabilità rappresenta l’eccezione. Interpretare il cambiamento, tuttavia, non significa fare gli indovini, ma comprendere come i fondamentali che stanno alla base di qualsiasi impresa debbano essere costantemente risignificati ed adeguati alle mutazioni del contesto competitivo. Ogni imprenditore/manager dovrebbe comprendere che il tentativo di restare fermo mentre attorno a lui tutto si sta muovendo, non gli risparmierà le noie del cambiamento, ma probabilmente gli impedirà di ottenerne i relativi vantaggi. Smettere di studiare, di formarsi, di sperimentare, di ripensare alle strategie, di analizzare gli errori, di cercare nuovi vantaggi competitivi, in altre parole, smettere di arricchire la cultura della propria impresa e di adagiarsi alla routine, significa non solo perdere opportunità economiche, ma soprattutto accumulare un gap di ritardo rispetto al contesto competitivo. L’imprenditore/manager deve essere consapevole che, prima o poi, il mercato lo costringerà ad affrontare tale ritardo ed avere un bel conto in banca potrebbe non bastare per risolvere il problema.  Sappiamo come i soldi possano aiutare l’avvio di una crescita economica, rappresentano in molti casi il punto di partenza, ma se l’impresa non cresce dal punto di vista culturale, potrebbero non essere mai sufficienti. Anzi, in molti casi il problema nasce proprio dal gap che si crea tra la crescita economica e quella culturale. Un differenziale che potrebbe mettere l’impresa a rischio di permanenza sul mercato, se non colmato tempestivamente.

Per fare un esempio concreto di quanto sto dicendo, vi invito a riflettere sul dibattito relativo alla digital transformation che da diverso tempo trova spazio su giornali e in alcune trasmissioni televisive.  In molti evidenziano i ritardi del nostro Paese su questo tema e quanto l’investimento nelle nuove tecnologie sia un passaggio obbligato per recuperare tali ritardi. Tuttavia raramente si entra nel merito della questione che è molto più complessa da come viene solitamente rappresentata. A tal proposito vi segnalo una lettura: il report Istat 2019 che alla pagina 59 riporta la sintesi di uno studio dello stesso Ente statistico del 2015. Studio operato per comprendere le ragioni della cronica minore produttività delle nostre imprese rispetto a quelle di altri Paesi europei.

Il ragionamento relativo alla produttività ruota attorno a due concetti fondamentali: il capitale fisico ed il capitale umano.

Il capitale umano viene misurato a partire dai suoi due elementi portanti: il livello di istruzione (in termini di anni di studio) e la job tenure (in termini di anni di permanenza nell’impresa). La dotazione di capitale fisico di una impresa è invece misurata dal valore delle immobilizzazioni materiali e immateriali per addetto.

Lo studio Istat sopra citato ha evidenziato, su imprese con almeno 10 dipendenti, un legame positivo tra capitale fisico, produttività e dimensioni aziendali. Questo aspetto non sorprende più di tanto, anche se i valori di produttività delle imprese con una maggiore intensità di capitale sono risultati quasi doppi rispetto alle imprese con un’intensità di capitale inferiore. Se invece si passa a considerare il capitale umano, i dati che sono emersi dallo stesso studio sono quasi imbarazzanti: il 77,6% delle imprese esaminate (quelle con almeno 10 dipendenti) possiede livelli bassi di capitale umano. La media del personale aveva appena terminato la scuola dell’obbligo e solo in parte raggiungeva un’anzianità aziendale vicina ai 10 anni, tale da compensare in qualche modo il minore livello di istruzione. La cosa era abbastanza omogenea su tutto il territorio nazionale: 75,9% per le imprese del Nord-Est contro il 79,9% di quelle meridionali. Inoltre, è abbastanza preoccupante il fatto che il fenomeno riguardi il 68,1% degli addetti che producono il 49,7% del valore aggiunto complessivo delle aziende con almeno 10 dipendenti e, allo stesso tempo, si estenda all’intero sistema produttivo, rappresentando circa un terzo del valore aggiunto e degli addetti.

Questi dati, al di là che possa non piacere l’espressione capitale umano, sono molto preoccupanti e dimostrano come il gap di produttività sia legato al ritardo culturale di molte imprese italiane. A rincarare la dose sulla questione ci sono anche le previsioni OCSE del maggio 2019, quindi non influenzate minimamente dal Covid-19 e non legate solo al nostro Paese, che prevedono, a livello dei 36 Paesi facenti parte dell’organizzazione, una difficoltà da parte delle PMI di attirare le competenze che servono per gestire questa benedetta digital Transformation. Competenze che sono scarse sul mercato e che preferiscono organizzazioni più Grandi e più strutturate (si veda l’articolo di Stefano Casini su INNOVATION POST).

Tradotto nel concreto significa che il nostro Paese avrà un percorso molto più difficile, indipendentemente dal Covid-19, verso la digital transformation e verso tutti i cambiamenti che la 4° rivoluzione industriale sta proponendo. Non sarà sufficiente inserire la nuova tecnologia per recuperare i ritardi accumulati; servirà un progetto complessivo! Infatti, i contributi economici che dovrebbero arrivare dall’Europa per favorire proprio la digital transformation e più in generale la ripresa economica a seguito dello shock causato dal Covid-19, potrebbero non essere sufficienti a far recuperare il gap di produttività delle nostre imprese, se non dovessero essere accompagnati da investimenti in termini culturali. Quest’ultimi investimenti dovranno essere operati dagli imprenditori/manager delle singole imprese, perché solo loro possono conoscere la base culturale della propria impresa. Inoltre, dovranno essere realizzati indipendentemente dall’arrivo di finanziamenti, altrimenti molte nostre imprese rischiano di uscire dal mercato. La mia preoccupazione nasce soprattutto dalla considerazione che, molto probabilmente, l’asticella della competizione globale si alzerà e sarà molto più focalizzata sulla ricerca di nuovi vantaggi competitivi rispetto a quanto molte imprese non stessero già facendo. Il Covid-19 sotto certo aspetti è già, ma lo sarà ancora di più in futuro, un acceleratore di alcuni processi. Evidentemente chi è impegnato a risolvere i nuovi problemi amplificati dalle vecchie abitudini perderà terreno.

Pierluigi Venturi


Che fare? Come si può recuperare il gap di ritardo culturale accumulato dalla maggioranza delle nostre PMI?  

Ne parleremo nei prossimi articoli, ma nel frattempo vi posso anticipare lo schema che ho intenzione di seguire:

1.    Non farò la lista della spesa delle cose che servirebbero da parte della Politica e delle diverse Istituzioni Nazionali o Europee. Mi limiterò ad invitare l’imprenditore/manager a sospendere la fase del lamento e a focalizzarsi sulle cose che servono alla sua impresa per farla crescere.

2.    Il percorso di crescita culturale non parte dalla formulazione di una nuova Strategia, in quanto quest’ultima è uno strumento di gestione condizionato dalla cultura dell’imprenditore. Ne segue che il percorso di crescita culturale parte dall’analisi del fare quotidiano che dovrà essere orientato a quegli elementi così ben descritti dalla definizione di cultura operata dal vocabolario Treccani, al fine di consentire una crescita dell’imprenditore e dei suoi collaboratori e quindi, raggiungere l’obiettivo di una nuova Strategia.

3.    La crescita culturale passa, a mio avviso, attraverso quattro “elementi”, strettamente collegati tra loro che, considero fondamentali, per elaborare una strategia aziendale capace di far fronte ai cambiamenti continui del contesto competitivo. I quattro elementi sono: la cultura del dato; il concetto di vantaggio competitivo; l’innovazione e la formazione continua. Tutto il resto è un di cui che può essere compreso all’interno di uno dei quattro elementi principali. Ovviamente la strategia non può essere considerata come semplice sommatoria dei quattro elementi sopra citati, in quanto presenta proprie peculiarità ma senza una crescita in termini culturali dei quattro “elementi” evidenziati non si ha la possibilità di formulare strategie più qualitative.

 

In definitiva, la cultura, per un'impresa, è l’asset più importante perché rappresenta l’investimento con il minor rischio di obsolescenza e se alimentata costantemente consente all’imprenditore e ai suoi collaboratori di interpretare meglio i cambiamenti che avvengono continuamente sul mercato. 

A me piace usare spesso l’espressione: “il futuro è già iniziato”. E’ un concetto su cui insisto molto perché ciò che farà qualsiasi imprenditore domani è figlio della sua Vision, di come abbia deciso di declinarla dal punto di vista strategico e tattico, ma, soprattutto, sarà il frutto di quanto sia diffusa nella sua azienda la cultura d’impresa che ha ispirato il suo pensare.



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