sabato 17 luglio 2021

I Vantaggi competitivi sono davvero transitori? - Terza Parte

di Pierluigi Venturi 

Con questo post concludiamo la riflessione sui Vantaggi competitivi iniziata nel mese di Febbraio (per chi volesse riprendere il ragionamento dall’inizio, di seguito i link dei post precedenti Vantaggi Competitivi - Prima Parte - Vantaggi Competitivi - Seconda Parte ).

Il titolo che ho voluto dare a questo terzo articolo, credo che chiarisca piuttosto bene dove andremo a parare. In altri termini, il ragionare sulle questioni che ruotano attorno ai vantaggi competitivi, non può avere una fine. Si tratta dell’elemento che fa fare la differenza a tutte le imprese, il punto di partenza di qualsiasi strategia aziendale, in definitiva: ciò che consente all’impresa di stare sul mercato.

Nell’articolo precedente avevo citato Rita McGrath e il suo libro sulla fine del vantaggio competitivo sostenibile, e sulla necessità di pensarlo invece come ad un qualcosa di transitorio. Per rendere l’idea su quello che dovesse essere il comportamento dell’imprenditore avevo utilizzato la metafora del surfista: sempre alla ricerca di onde che gli consentano di raggiungere la riva restando in piedi. 

Insisto sul lavoro della McGrath perché il suo manuale dei vantaggi competitivi transitori deriva da una ricerca molto accurata che la stessa professoressa della Columbus School realizzò con il suo gruppo di lavoro nel 2010.

Rita ed il suo gruppo avevano preso in esame tutte le imprese quotate in tutte le borse del mondo con una capitalizzazione di borsa superiore al miliardo di dollari americani alla fine del 2009. Il numero era pari a 4.793. Cosa stavano cercando? I “fuori classe della crescita”. Vale a dire le imprese che erano riuscite a crescere più della media in modo costante in un determinato periodo. Considerato che, nei 5 anni precedenti (2004-2009) il PIL mondiale era cresciuto mediamente di un 4% all’anno, vollero verificare quante aziende avessero superato il 5% di ricavi e di utili costanti ogni anno (Per essere considerati dei “fuoriclasse della crescita” dovevano risultare più bravi della media!). Il risultato fu che solamente l’8% delle aziende precedentemente individuate era riuscito a superare un incremento dei ricavi del 5%, ogni anno e per tutto il periodo considerato. Spostando il discorso sugli utili netti la percentuale raggiungeva appena il 4%. Il pensiero del gruppo di studio fu che, probabilmente, considerare solamente il quinquennio 2004-2009, a fronte della grande recessione registrata del 2008, fosse stato troppo severo per quelle imprese che, magari erano gestite bene, ma non erano riuscite a sottrarsi alla grande recessione. Così, mantenendo fermi i parametri sopra menzionati, riformularono l’analisi prendendo in considerazione il periodo 2000-2004. I numeri migliorarono, anche se non in modo eclatante. Infatti si ottenne un 15% per i ricavi ed un 7% per gli utili. Analizzando quindi, il periodo precedente la grande recessione, poterono verificare che le aziende, costantemente cresciute negli anni, non erano per nulla la media e questa cosa stimolò la loro curiosità. Presero allora come riferimento l’intero periodo 2000-2009 e il risultato fu che le aziende capaci di crescere tutti gli anni in modo costante e progressivo di almeno il 5%, sia in termini di ricavi che di utili erano esattamente dieci (cfr. Tabella 1). 


Tabella 1 : Fonte ricerca Rita Gunther McGrath-2010-The end of competitive advantage


Successivamente la McGrath, prese tutte queste aziende e le confrontò con i tre principali concorrenti di riferimento e poi fra loro, per comprendere quali fossero le ragioni di una crescita così coerente e costante negli anni. La conclusione fu che le dirigenze delle dieci imprese esaminate, pur perseguendo strategie con una prospettiva di lungo periodo, erano consapevoli che quello che stavano facendo in quel momento, qualunque cosa fosse, non sarebbe stato l’elemento determinante della loro crescita futura. Altra cosa interessante che emerse dall’analisi e che accomunava tutte le dieci aziende era la modalità operativa: riuscivano a mantenere una buona stabilità interna all’impresa a fronte di un’eccezionale incoraggiamento all'agilità esterna. 

La letteratura economica ci offre molti esempi eclatanti di aziende che non hanno saputo leggere i profondi cambiamenti che stavano avvenendo sul mercato e che hanno dovuto fare i conti con la transitorietà dei loro vantaggi competitivi. Spesso in maniera dolorosa. La cosa strana è che nonostante i dirigenti di queste imprese abbiano vissuto sulla propria pelle i cambiamenti che spesso il mercato aveva proposto, non sono riusciti ad elaborare strategie diverse. Analizzare in profondità questo aspetto ci porterebbe lontani, ma ciò che posso dire, sulla base della mia esperienza, è che uno dei motivi principali per il quale i manager (o gli imprenditori) non riescono a scrollarsi di dosso il paradigma che li ha accompagnati durante la loro carriera, è quello di adagiarsi alla routine e sottovalutare il cambiamento. Si fidano troppo del loro istinto.  Inoltre, le organizzazioni, grandi o piccole che siano, abituate a mettere in fila strisce di successi, disimparano a gestire le difficoltà e quando accade, generalmente, i loro dirigenti cominciano a mettersi alla ricerca di colpevoli per attribuire colpe, ma così facendo ritardano ulteriormente l’individuazione delle soluzioni. Prima del baratro, normalmente, i gruppi si rinsaldano e si torna a lavorare con spirito di squadra anche se, spesso, è troppo tardi. Il timing è sempre decisivo nelle scelte di qualsiasi imprenditore, ma nei momenti di crisi è l’aspetto fondamentale per una soluzione efficace. Trovare una “cura” quando il paziente è morto, evidentemente è un non senso.

Volendo citare qualche caso, dove si sono sviluppate le dinamiche sopra descritte, possiamo segnalare le storie di Kodak, Blockbuster, Nokia e BlackBurry. Quest’ultime per non aver saputo interpretare il cambiamento introdotto dall’I Phone, anche se le conseguenze sono state diverse per le rispettive aziende: Nokia ha ceduto il ramo di telefonia mobile a Microsoft ed è ancora nelle 500 aziende più importanti al mondo; BlackBurry ha chiuso definitivamente i battenti nel 2019.


Il cambiamento, nei casi appena citati, era collegato agli aspetti tecnologici, ma potrei citare tante altre situazioni in cui la stessa tecnologia non ha giocato un ruolo determinante. Ad esempio nella grande distribuzione. Auchan ha ceduto i propri punti vendita alla cordata Conad-Mincione. E pensare che aveva una posizione assolutamente dominante in tutti segmenti della distribuzione, quindi non solo GDO. Ferretti group, un leader nel mondo della nautica da diporto, da 50 anni assoluto player mondiale di riferimento per questo settore di nicchia, ha rischiato più volte di chiudere bottega finché nel 2013 è stato acquistato da parte del colosso Cinese Weichai. ll mondo della moda è pieno di esempi dove cattiva interpretazione del cambiamento, abbinati ad effimeri vantaggi competitivi legati a brand che per qualche motivo riescono a fare presa sul mercato, sono all’ordine del giorno.

In definitiva, avere un approccio strategico orientato alla transitorietà del vantaggio e quindi, alla ricerca/costruzione costante di nuove opportunità, è di fondamentale importanza per contenere gli effetti negativi di errori di valutazione e crisi. Tale approccio consente di affrontare anche cambiamenti più importanti in quanto gli imprenditori e i dirigenti sono già allenati al “non adagiarsi alla routine” perché è meglio gestire piccole variazioni costanti della strategia aziendale piuttosto che grandi e dolorose ristrutturazioni quando il rischio di non riuscire è sempre molto elevato. In altri termini, vale sempre l’adagio secondo il quale prevenire è meglio che curare. Questa cosa riguarda solo le grandi aziende? Assolutamente no! Anzi per le piccole è ancora più importante, in quanto generalmente hanno vantaggi competitivi più deboli.


Se volessimo rileggere la storia dell’evoluzione del fare impresa delle ditte artigiane/PMI ma anche grandi aziende, comprenderemmo come le decisioni degli imprenditori e manager siano state sempre condizionate dai cambiamenti avvenuti nel contesto interno o esterno all’impresa. Insomma, se rileggessimo la storia come strumento di gestione cercando di cogliere quel significante che connette passato, presente e futuro, superando l’affascinante dibattito tenutosi a fine ‘800 tra Villari e Benedetto Croce (per comprendere se la storia dovesse essere considerata una disciplina scientifica o “ridotta sotto il concetto generale dell’arte”), ci accorgeremmo che, il far impresa si sostanzia nell’interpretazione del cambiamento.  Tuttavia, può accadere di seguire tutte le istruzioni del “manuale del bravo imprenditore” - ammesso che esista un tale documento - di raggiungere una posizione dominante sul mercato e poi sparire velocemente. Come può succedere? Beh la risposta la dovremmo intuire! A volte, limitarsi a fare il “compitino”, soprattutto di fronte a cambiamenti radicali non basta. In questi casi, i cambiamenti, che possono provenire dall’innovazione tecnologia, dalle abitudini dei consumatori, dalla modifica delle relazioni sociali, dalle organizzazioni internazionali, dai movimenti culturali e politici ed altro, diventano difficili da interpretare anche da grandi imprese. Infatti, in questi casi, non si tratta di costruire un mindset orientato alla crescita sia dimensionale che culturale sul quale potrebbero mostrare dei deficit le piccole imprese.  Bene o male chi arriva ad avere una certa posizione sul mercato e la consolida nel tempo, significa, al netto di qualche caso isolato, che possiede dei buoni fondamentali del fare impresa. In questi casi l’Artigianite (come a me piace definire questa resistenza al cambiamento) colpisce gli imprenditori/dirigenti perché smettono di “allenarsi” nel cercare di interpretare il cambiamento e a non pensare al vantaggio competitivo come qualcosa di transitorio. Insomma, si fidano eccessivamente della posizione dominante conquistata, si adagiano alla routine e cominciano a sottovalutare le minacce del cambiamento in arrivo. Se volessimo utilizzare una metafora sportiva, potremmo dire che anche il campione di talento ha bisogno di allenarsi continuamente per esprimere tutto il suo potenziale. Tuttavia, se vuol essere qualificato come un “fuoriclasse”, oltre al talento ed all’allenamento deve avere anche una visione del gioco differente.

E allora non abbiamo scampo: dobbiamo considerare il vantaggio competitivo come qualcosa di transitorio ed adeguare conseguentemente le nostre strategie a questo concetto; dettato non da un vezzo di originalità ma dalla constatazione che il cambiamento sia una costante e non una eccezione. 

 

Concludo dicendo che, nel prossimo futuro, ogni imprenditore dovrà diventare (volente o nolente) un “ricercatore di vantaggi competitivi”. Per coloro che continuano ad avere dei dubbi li invito a seguire il seguente ragionamento:

 

1.     Il vantaggio competitivo sostenibile o transitorio che sia, se lo traduciamo in numeri, altro non è che margine di contribuzione per l’azienda (teoricamente superiore alla media di mercato per effetto dello stesso vantaggio);

2.     Il margine di contribuzione sappiamo essere quella cosa che, se raggiunge i costi fissi totali dell’azienda, le consente di sopravvivere e stare sul mercato. Ovviamente l’obiettivo di qualsiasi imprenditore non è solo quello di sopravvivere, ma di ottenere dei profitti dalla sua attività, anche perché con l’aria di volatilità che tira, basterebbe un soffio di vento per uscire dal mercato. Tuttavia il margine di contribuzione o la riduzione dei costi fissi (considerato che il break even è un rapporto) dovrebbe, a mio avviso, non solo consentire di raggiungere un giusto utile, per gratificare l’imprenditore, ma dovrebbe consentire, in quota parte, anche degli investimenti, soprattutto nella ricerca di nuovi vantaggi competitivi;

3.     La ricerca di nuovi vantaggi competitivi, fatta in modo sperimentale dovrebbe portare a nuove opportunità che, come detto sopra, rappresentano altro margine di contribuzione per l’azienda; innescando così un circolo virtuoso di crescita sano, come rappresentato in figura.2. In alternativa, se siamo più pessimisti lo possiamo immaginare come un approccio per difenderci dalle minacce che, dato il contesto competitivo, possono arrivare da più parti.

Figura 2. Percorso di crescita e/o di tutela contro i rischi per un’impresa





4.In definitiva, ogni impresa, grande o piccola che sia, ha necessità di avere costantemente dei vantaggi competitivi per crescere e/o poter restare sul mercato. Siccome stanno diventando sempre più transitori non si può smettere di cercarne di nuovi. 

 

 

 

Buon lavoro!


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