domenica 11 aprile 2021

Mammane

 di Giovanni Pelosi

foto di Patrizia Renzoni

Chi aiutava le donne ad abortire clandestinamente era definita “mammana”, una figura un tempo presente un po’ ovunque nella nostra provincia e una statistica del 1808 offre il seguente prospetto:

                           Medici                    Chirurghi                     Mammane

Fano                          3                               2                                 2

Cartoceto                   1                               1                                  1

Saltara                       1                               1                                  1

Serrungarina             1                                /                                   1

 Mentre per le prime due categorie viene precisato un quadro puntuale e analitico, per la terza si sottolinea che “esercitano tale professione senza però conoscere l’ostetricia per principi”. Il numero di quelle che “illegittimamente” svolgevano tale attività “era considerevole” e ben oltre l’indagine che ne era stata avviata. L’esame dei verbali della Cancelleria Criminale, Tribunale religioso, consente di poter dire che si è perlopiù in presenza di “praticone”; di chi riteneva di avere una certa conoscenza del corpo femminile anche attraverso gli insegnamenti avuti in casa. Così è stato per Petronilla che aveva iniziato “l’arte sotto la sotto la direzione della di lei madre ormai vecchia e cagionevole”. Alle mammane si presentavano quelle donne che l’ignoranza, la miseria, le condizioni di vita, le avevano portate a prostituirsi, non mancavano quelle che avevano subito stupri, né quelle che si abbandonavano a dubbie frequentazioni e pratiche disoneste.

Non era solo il Parroco che vigilava sulla moralità dei suoi parrocchiani, ma anche gli stessi abitanti del luogo “stante le cattive pratiche degli ammogliati nonché dei giovani per il cattivo esempio che davano”, per cui da parte del Vescovo venivano emanati decreti di allontanamento dal paese, come più volte accadde a Ripalta e non solo. Cosicché dalle Mammane venivano portate anche donne provenienti da altri territori.

Antonia e Petronilla, due note mammane di Fano nella prima metà dell’800, riferiscono di giovani donne che si erano rivolte a loro provenienti da Novilara e Roncosambaccio. Alcune di esse appena partorito avrebbero voluto avrebbero voluto ritornarsene subito a casa per timore che i genitori o i vicini potessero scoprire quanto loro accaduto , ma le condizioni in cui si trovavano, lo stato “infermiriccio” o la loro debolezza non sempre permettevano lo spostamento. Sempre Antonia racconta l’arrivo nella sua casa di una donna incinta accompagnata dalla madre; partorirà una bimba che alle ore 5 di notte, avvolta in panni laceri consegnò lei stessa alla ruota e ricevette come ricompensa e per il suo silenzio 15 baiocchi.

La mammana di S. Giorgio riferisce di una donna incinta che le chiese di assisterle nell’imminenza del parto avvertendola che se la creatura fosse stata sufficientemente robusta non l’avrebbe fatta battezzare nel paese, ma in un luogo più lontano e che l’avrebbe poi portata nel brefotrofio.

Per ben vivere o morire

 Da quanto detto nella prima parte di questa ricerca sul brefotrofio di Fano, si può ritenere che, pur nelle condizioni di miseria e di stenti, le esposte esterne godevano di una certa autonomia potendo in qualche misura disporre di se stesse e operare delle scelte, quelle che invece rimanevano all’interno del Conservatorio fino a che non venissero adottate o richieste come spose, conducevano una esistenza regolata da norme e consuetudini radicate nel tempo. È così possibile fornire un quadro sull’organizzazione e funzionamento del brefotrofio.

Era la campana a scandire tutti i momenti della loro vita quotidiana così come avveniva nei conventi. Al suo suono si dovevano rapidamente alzare dal letto e chi non obbediva prontamente andava incontro a varie sanzioni: dal rimanere a pane e acqua e senza pietanze, alle ulteriori conseguenze derivanti alla relazione sull’accaduto inviata ai responsabili del Conservatorio. Le esposte disponevano di mezz’ora di tempo per vestirsi e assestare il letto; il tutto doveva avvenire in silenzio e con sollecitudine. L’abito che indossavano doveva arrivare fino al collo, privo di nastri, fettucce o altri ornamenti mondani, le maniche fino ai polsi e la gonna fino alle scarpe perché il tutto doveva essere conforme al decoro di chi era sotto la protezione di Maria Santissima e di San Michele e improntato alla modestia e all’edificazione non solo delle proprie compagne, ma anche degli estranei. Poi in ginocchio davanti al proprio letto, tutti insieme ad alta voce, seguendo l’avvio delle preghiere della più anziana fra loro si rivolgevano a Dio anche per averle conservate in vita quella notte e perché protegga i benefattori dell’istituto.

Era ancora la campana che al secondo tocco le invitava in chiesa dove per mezz’ora si dedicavano all’orazione mentale e all’ascolto della Santa Messa.


Fano, Chiesa di San Michele
Dopo la funzione religiosa si portavano nelle varie stanze del lavoro e la priora, a seconda dell’età e capacità delle esposte assegnava specifici compiti che riguardavano soprattutto il ricamo e la tessitura. Non dovevano restare mai sole, né parlare in modo da non essere udite da chi aveva avuto questo specifico compito dalla superiora. Non era permesso ad alcuna di accostarsi alle finestre né di colloquiare con persone esterne “se non quello di buon nome e reputazione”. Al momento del pranzo e della cena, se qualcuna non fosse stata puntuale perdeva la pietanza se era la prima volta; se si fosse ripetuto doveva aspettarsi un ulteriore “castigo”.

Non mancano disposizioni volte a tutelare la loro moralità e il decoro per cui nel dormitorio erano distribuite in modo che ogni tre o quattro letti vi fosse una loro compagna tra le più esemplari a cui spettava il compito di controllare le vicine in modo che osservassero le regole della modestia nel vestirsi e spogliarsi. Una norma infatti contemplava che “ognuna si spogli in modo che resti sempre coperta onde non offenda li occhi delle altre, perciò sotto i lenzuoli si levi ciò che è necessario per mantenere questa decenza.  E così nel vestirsi sotto i lenzuoli si ponga ciò stesso ed allora solo ne sorta”. Tali e altre regole dello stesso tenore che nelle loro impostazioni si rifacevano a quelle tipiche, anche se ancora più restrittive, della clausura, ma difficilmente erano seguite alla lettera se in un “Promemoria che si esibisce a Monsignor Vescovo” viene rilevato che “le orazioni in cui si occupano le giovani in comune vengono fatte senza metodo e ordine”. Così pure in chiesa avveniva che non vi era troppo silenzio ma “regna una gran irriverenza e vi sono delle giovani che disturbano le altre al punto di accostarsi ai sacramenti. Le esposte non rispettavano a detta dei superiori, l’ordine di portare i capelli come nel conservatorio Pio di Roma e cioè “legati insieme in una sola treccia dietro con fettuccia nera o scura alla semplice e tutte allo stesso modo proibendosi rigorosamente toppe, ricci, cerette, fiori e qualunque altra sorte di vanità; si vieta ancora a qualunque il tener presso di sé forcinelle , cipria o specchio”. Anche la disciplina interna non doveva funzionare al meglio se i giudici, quando andavano in visita al Conservatorio avevano in mano un bastone di canna d’India per controllare l’andamento comportamentale delle giovani. Si trattenevano in conversazione con la governante e con qualche altra esposta per sapere se qualcuna avesse disobbedito o non rispettato le più anziane e quando la canna d’India si alzava “minacciando una delinquente di qualche piccolo difetto, si aggrettava la carne a tutte dal timore”.

L’oggi

Torna la “Ruota” con il suo carico di neonati . Il fenomeno della pratica dell’abbandono non ha conosciuto arresti nel corso dei secoli, anzi, nell’Ottocento si verificò un aumento costante favorito dalla diffusione delle attività manifatturiere che richiedeva una presenza intensa delle donne. Da allora le “ruote” si sono moltiplicate in Italia nonostante la definitiva abolizione nel 1923 sotto il fascismo e anche in altri paesi europei. Una risoluzione dell’ONU del 2010 le mise in discussione per la possibilità di essere un incoraggiamento all’abbandono. La legge italiana in materia di assistenza a partire dai neonati è una delle più avanzate nel mondo dal momento che prevede di poter partorire in anonimato e garantisce alle donne non solo di essere assistite nella fase del parto. Ma anche di non essere perseguita nel caso di non riconoscere per proprio il nascituro; in questo caso subentra l’istituto dell’adozione da parte del Tribunale dei minori a meno che entro due mesi non abbiano un ripensamento a riguardo. In Italia si calcola che ogni anno circa 400 sono i casi di bambini non riconosciuti alla nascita e, secondo l’ISTAT, 700 quelli tra 0 e 3 anni a rischio di malnutrizione e malattia compresi quelli che non vengono depositati alle ruote.

Oggi vi sono modalità di accoglienza indubbiamente diverse, meno traumatiche e dagli antichi palazzi le ruote si sono spostate negli ospedali garantendo la salute del neonato e la non rintracciabilità della madre se questa è la sua intenzione. Senza essere viste le donne possono depositare in una culla riscaldata i figli che subito vengono presi in cura dall’apparato medico. 


Nonostante queste garanzie restano numerosi gli abbandoni dovuti a molteplici cause, dalle disagiate condizioni economiche alla povertà culturale, dalla marginalità sociale alla non cittadinanza italiana, dal pericolo di perdere il lavoro a violenze sessuali, dai parti in casa alle gravidanze nascoste.

Le nuove ruote chiamate anche “culle per la vita” hanno posto un grande freno a infanticidi, ai nati abbandonati come un tempo per strada, davanti alle chiese o, ai nostri tempi, addirittura gettati nei cassonetti. La decisione dell’abbandono, quando si ha a che fare con casi di così grande precariato, piuttosto che spingerci ad una condanna morale verso queste madri, va considerata come una scelta responsabile per concedere ai propri figli la possibilità di trovare una famiglia che dia loro amore. Penso che sia giusto offrire loro, volontariamente, la scelta di lasciare i propri dati in un apposito registro in modo che diventati maggiorenni, se lo desiderano, possano rintracciarli come genitori.

Penso ad una società più solidale.

                                                                                                                         Fine

4 commenti:

  1. La tabella statistica e l'articolo parlano solo di "mammane", ma già da tempi antichi erano diffusi anche i termini "levatrice" (Socrate era figlio di una levatrice) e "ostetrica". A Fano il più usato era "levatrice" e indicava una figura professionale rispettata, mentre "mammana" aveva in sé qualcosa di losco. Benché la professione della "levatrice" sia stata regolamentata per legge, e per titoli di studio, solo molto più tardi, era riconosciuta anche prima del 1808 a cui si riferisce la statistica ed in genere era trasmessa da madre a figlia e faceva parte di quel sapere relativo alla cura delle persone che poi è stato regolamentato nelle professioni mediche e paramediche. Nel Medioevo e in parte fino ai primi dell'Ottocento il medico era distinto dal chirurgo e spesso il chirurgo era un "cerusico", un praticante senza studi specifici ma solo un apprendistato analogo a quello di un artigiano. Allo stesso modo la levatrice era la praticante del mestiere, distinta dal medico, ma in genere, come il cerusico, non in contrasto ma in collaborazione col medico che si chiamava, soprattutto da parte dei poveri, solo in casi particolarmente gravi. Non mancano però anche le voci di medici che, già nel Settecento, polemizzano contro gli "errori" delle levatrici e auspicano una preparazione anche teorica che solo le scuole di medicina potevano dare. Un esempio in proposito si ha nel libro di Samuele Pasquali «Degli errori delle levatrici» (Napoli, 1792), dove si combattono non solo gli errori, veri o presunti, e l'impreparazione medica (anatomia, fisiologia) delle levatrici, ma il pregiudizio che ostacolava il ricorso delle donne gravide e partorienti a un medico. I medici erano allora tutti maschi (e lo saranno fino agli inizi del Novecento e anche per gran parte del secolo scorso i medici sono in maggioranza maschi) e il pudore impediva alle donne (e spesso anche ai mariti che non davano il consenso) di farsi visitare e assistere al parto da medici maschi. Tuttavia Pasquali, e altri medici che trattano lo stesso argomento, vivevano in un tempo storico troppo maschilista per suggerire una soluzione che oggi pare ovvia: aprire le scuole di medicina anche alle donne e disegnare un percorso professionale specifico per le levatrici. No, la proposta era che le donne abbandonassero il pregiudizio di questo pudore e si facessero assistere dai medici. Pasquali chiude il libro con questa perorazione alle donne:
    «O sesso amabile, tu puoi conservare l'onestà e la saviezza in tutte le circostanze: il medico saprà aver tutti i riguardi alla tua delicatezza e mettere un velo in tutte le sue operazioni: la sua mano sarà cosi timida, e cosi innocente come quella di Origene: tu soffri, tu cimenti la tua vita, tu puoi perdere il frutto dell'amore, e sono circostanze queste da sentire l'impero del pregiudizio, e da lasciarsi ingannare dalla debolezza, e dall'errore? Possa finalmente la ragione riprendere i suoi dritti, e possa il costume di tante nazioni, e della Capitale, rendersi generale in tutte le provincie!».
    [continua]

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  2. [seguito]
    La distinzione fra "Capitale" e "provincie" è significativa. Infatti, il ricorso al medico iniziò prima e si diffuse di più nelle città maggiori e poi pian piano si estese alle province. Ma quando io nacqui, nel 1944 a Piagge, in periodo ancora di guerra, mio padre non cercò, per mia madre, l'assistenza di un medico, perché ciò non era ancora in uso se non in casi di pericolo di morte, ma chiamò la levatrice del paese. E tutto il mondo agricolo in tutte le regioni d'Italia aveva ancora questo costume, come ne abbiamo testimonianza in tanti libri e film.
    Il termine "mammana", più usato nell'Italia meridionale, era nel Medioevo e in Età moderna spesso sinonimo di tenutaria di case di tolleranza. In sostanza veniva usato, nelle Marche settentrionali, per indicare una "levatrice" non pienamente riconosciuta, clandestina - si potrebbe dire -, che praticava anche aborti e forme di assistenza al parto non sempre lecite o bisognose di segretezza. C'era pertanto una significativa distinzione fra "levatrice" e "mammana". Quando, a partire dalla metà dell'Ottocento, si cominciò a sviluppare un movimento per la professionalizzazione, l'associazione e la sindacalizzazione delle levatrici, in tutti i documenti si usa sempre il termine "levatrice" e mai "mammana" e quando negli ultimi decenni dell'Ottocento si arriva a una federazione nazionale, questa si chiama "Federazione Nazionale delle Levatrici". Ciò detto, va aggiunto che non mancano, sebbene più rari, i casi di uso positivo del termine "mammana". Uno l'abbiamo addirittura in un libro di un sacerdote, Girolamo Baruffaldi, edito a Trento nel 1760 col titolo «La mammana istruita per validamente amministrare il S. Sagramento del Battesimo in caso di necessità alle creature nascenti». Però si ponga attenzione alla data: 1760. Nel 1860 o nel 1960 nessuno avrebbe più usato quel termine in quel contesto.

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  3. Grazie Giovanni per questa pillola della storia dei nostri avi... Questi fatti ricordo quando mia nonna le raccontava nelle veglie invernali.

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  4. Povere figlie
    Purtroppo ancora oggi tali sofferenze, anche se in forme diverse, si abbatte sulla pelle delle donne che sole, allora come ora, ne portano il peso
    E in Sicilia dopo aver dato i neonati alle ruote le giovani venivano cacciate di casa e le loro madri si vestivano a lutto per cancellarne anche la memoria.

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