di Giovanni Pelosi
foto di Patrizia Renzoni
Chi aiutava le donne ad abortire clandestinamente era definita “mammana”, una figura un tempo presente un po’ ovunque nella nostra provincia e una statistica del 1808 offre il seguente prospetto:
Medici Chirurghi Mammane
Fano 3 2 2
Cartoceto 1 1 1
Saltara 1 1 1
Serrungarina 1 / 1
Non era solo il Parroco che
vigilava sulla moralità dei suoi parrocchiani, ma anche gli stessi abitanti del
luogo “stante le cattive pratiche degli ammogliati nonché dei giovani per il
cattivo esempio che davano”, per cui da parte del Vescovo venivano emanati
decreti di allontanamento dal paese, come più volte accadde a Ripalta e non
solo. Cosicché dalle Mammane venivano portate anche donne provenienti da altri
territori.
Antonia e Petronilla, due
note mammane di Fano nella prima metà dell’800, riferiscono di giovani donne
che si erano rivolte a loro provenienti da Novilara e Roncosambaccio. Alcune di
esse appena partorito avrebbero voluto avrebbero voluto ritornarsene subito a
casa per timore che i genitori o i vicini potessero scoprire quanto loro
accaduto , ma le condizioni in cui si trovavano, lo stato “infermiriccio” o la
loro debolezza non sempre permettevano lo spostamento. Sempre Antonia racconta
l’arrivo nella sua casa di una donna incinta accompagnata dalla madre;
partorirà una bimba che alle ore 5 di notte, avvolta in panni laceri consegnò
lei stessa alla ruota e ricevette come ricompensa e per il suo silenzio 15
baiocchi.
La mammana di S. Giorgio
riferisce di una donna incinta che le chiese di assisterle nell’imminenza del
parto avvertendola che se la creatura fosse stata sufficientemente robusta non
l’avrebbe fatta battezzare nel paese, ma in un luogo più lontano e che
l’avrebbe poi portata nel brefotrofio.
Per
ben vivere o morire
Da quanto detto nella prima parte di questa
ricerca sul brefotrofio di Fano, si può ritenere che, pur nelle condizioni di
miseria e di stenti, le esposte esterne godevano di una certa autonomia potendo
in qualche misura disporre di se stesse e operare delle scelte, quelle che
invece rimanevano all’interno del Conservatorio fino a che non venissero
adottate o richieste come spose, conducevano una esistenza regolata da norme e
consuetudini radicate nel tempo. È così possibile fornire un quadro sull’organizzazione
e funzionamento del brefotrofio.
Era la campana a scandire
tutti i momenti della loro vita quotidiana così come avveniva nei conventi. Al
suo suono si dovevano rapidamente alzare dal letto e chi non obbediva
prontamente andava incontro a varie sanzioni: dal rimanere a pane e acqua e
senza pietanze, alle ulteriori conseguenze derivanti alla relazione
sull’accaduto inviata ai responsabili del Conservatorio. Le esposte disponevano
di mezz’ora di tempo per vestirsi e assestare il letto; il tutto doveva
avvenire in silenzio e con sollecitudine. L’abito che indossavano doveva
arrivare fino al collo, privo di nastri, fettucce o altri ornamenti mondani, le
maniche fino ai polsi e la gonna fino alle scarpe perché il tutto doveva essere
conforme al decoro di chi era sotto la protezione di Maria Santissima e di San
Michele e improntato alla modestia e all’edificazione non solo delle proprie
compagne, ma anche degli estranei. Poi in ginocchio davanti al proprio letto,
tutti insieme ad alta voce, seguendo l’avvio delle preghiere della più anziana
fra loro si rivolgevano a Dio anche per averle conservate in vita quella notte
e perché protegga i benefattori dell’istituto.
Era ancora la campana che al secondo tocco le invitava in chiesa dove per mezz’ora si dedicavano all’orazione mentale e all’ascolto della Santa Messa.
Fano, Chiesa di San Michele |
Non mancano disposizioni volte
a tutelare la loro moralità e il decoro per cui nel dormitorio erano
distribuite in modo che ogni tre o quattro letti vi fosse una loro compagna tra
le più esemplari a cui spettava il compito di controllare le vicine in modo che
osservassero le regole della modestia nel vestirsi e spogliarsi. Una norma
infatti contemplava che “ognuna si spogli in modo che resti sempre coperta onde
non offenda li occhi delle altre, perciò sotto i lenzuoli si levi ciò che è
necessario per mantenere questa decenza.
E così nel vestirsi sotto i lenzuoli si ponga ciò stesso ed allora solo
ne sorta”. Tali e altre regole dello stesso tenore che nelle loro impostazioni
si rifacevano a quelle tipiche, anche se ancora più restrittive, della
clausura, ma difficilmente erano seguite alla lettera se in un “Promemoria che
si esibisce a Monsignor Vescovo” viene rilevato che “le orazioni in cui si
occupano le giovani in comune vengono fatte senza metodo e ordine”. Così pure
in chiesa avveniva che non vi era troppo silenzio ma “regna una gran
irriverenza e vi sono delle giovani che disturbano le altre al punto di
accostarsi ai sacramenti. Le esposte non rispettavano a detta dei superiori, l’ordine
di portare i capelli come nel conservatorio Pio di Roma e cioè “legati insieme
in una sola treccia dietro con fettuccia nera o scura alla semplice e tutte
allo stesso modo proibendosi rigorosamente toppe, ricci, cerette, fiori e
qualunque altra sorte di vanità; si vieta ancora a qualunque il tener presso di
sé forcinelle , cipria o specchio”. Anche la disciplina interna non doveva
funzionare al meglio se i giudici, quando andavano in visita al Conservatorio
avevano in mano un bastone di canna d’India per controllare l’andamento
comportamentale delle giovani. Si trattenevano in conversazione con la
governante e con qualche altra esposta per sapere se qualcuna avesse
disobbedito o non rispettato le più anziane e quando la canna d’India si alzava
“minacciando una delinquente di qualche piccolo difetto, si aggrettava la carne
a tutte dal timore”.
L’oggi
Torna la “Ruota” con il suo
carico di neonati . Il fenomeno della pratica dell’abbandono non ha conosciuto
arresti nel corso dei secoli, anzi, nell’Ottocento si verificò un aumento
costante favorito dalla diffusione delle attività manifatturiere che richiedeva
una presenza intensa delle donne. Da allora le “ruote” si sono moltiplicate in
Italia nonostante la definitiva abolizione nel 1923 sotto il fascismo e anche
in altri paesi europei. Una risoluzione dell’ONU del 2010 le mise in
discussione per la possibilità di essere un incoraggiamento all’abbandono. La
legge italiana in materia di assistenza a partire dai neonati è una delle più
avanzate nel mondo dal momento che prevede di poter partorire in anonimato e
garantisce alle donne non solo di essere assistite nella fase del parto. Ma anche
di non essere perseguita nel caso di non riconoscere per proprio il nascituro;
in questo caso subentra l’istituto dell’adozione da parte del Tribunale dei
minori a meno che entro due mesi non abbiano un ripensamento a riguardo. In
Italia si calcola che ogni anno circa 400 sono i casi di bambini non
riconosciuti alla nascita e, secondo l’ISTAT, 700 quelli tra 0 e 3 anni a
rischio di malnutrizione e malattia compresi quelli che non vengono depositati
alle ruote.
Oggi vi sono modalità di accoglienza indubbiamente diverse, meno traumatiche e dagli antichi palazzi le ruote si sono spostate negli ospedali garantendo la salute del neonato e la non rintracciabilità della madre se questa è la sua intenzione. Senza essere viste le donne possono depositare in una culla riscaldata i figli che subito vengono presi in cura dall’apparato medico.
Nonostante queste garanzie
restano numerosi gli abbandoni dovuti a molteplici cause, dalle disagiate
condizioni economiche alla povertà culturale, dalla marginalità sociale alla
non cittadinanza italiana, dal pericolo di perdere il lavoro a violenze
sessuali, dai parti in casa alle gravidanze nascoste.
Le nuove ruote chiamate
anche “culle per la vita” hanno posto un grande freno a infanticidi, ai nati
abbandonati come un tempo per strada, davanti alle chiese o, ai nostri tempi,
addirittura gettati nei cassonetti. La decisione dell’abbandono, quando si ha a
che fare con casi di così grande precariato, piuttosto che spingerci ad una
condanna morale verso queste madri, va considerata come una scelta responsabile
per concedere ai propri figli la possibilità di trovare una famiglia che dia
loro amore. Penso che sia giusto offrire loro, volontariamente, la scelta di
lasciare i propri dati in un apposito registro in modo che diventati
maggiorenni, se lo desiderano, possano rintracciarli come genitori.
Penso ad una società più
solidale.
Fine
La tabella statistica e l'articolo parlano solo di "mammane", ma già da tempi antichi erano diffusi anche i termini "levatrice" (Socrate era figlio di una levatrice) e "ostetrica". A Fano il più usato era "levatrice" e indicava una figura professionale rispettata, mentre "mammana" aveva in sé qualcosa di losco. Benché la professione della "levatrice" sia stata regolamentata per legge, e per titoli di studio, solo molto più tardi, era riconosciuta anche prima del 1808 a cui si riferisce la statistica ed in genere era trasmessa da madre a figlia e faceva parte di quel sapere relativo alla cura delle persone che poi è stato regolamentato nelle professioni mediche e paramediche. Nel Medioevo e in parte fino ai primi dell'Ottocento il medico era distinto dal chirurgo e spesso il chirurgo era un "cerusico", un praticante senza studi specifici ma solo un apprendistato analogo a quello di un artigiano. Allo stesso modo la levatrice era la praticante del mestiere, distinta dal medico, ma in genere, come il cerusico, non in contrasto ma in collaborazione col medico che si chiamava, soprattutto da parte dei poveri, solo in casi particolarmente gravi. Non mancano però anche le voci di medici che, già nel Settecento, polemizzano contro gli "errori" delle levatrici e auspicano una preparazione anche teorica che solo le scuole di medicina potevano dare. Un esempio in proposito si ha nel libro di Samuele Pasquali «Degli errori delle levatrici» (Napoli, 1792), dove si combattono non solo gli errori, veri o presunti, e l'impreparazione medica (anatomia, fisiologia) delle levatrici, ma il pregiudizio che ostacolava il ricorso delle donne gravide e partorienti a un medico. I medici erano allora tutti maschi (e lo saranno fino agli inizi del Novecento e anche per gran parte del secolo scorso i medici sono in maggioranza maschi) e il pudore impediva alle donne (e spesso anche ai mariti che non davano il consenso) di farsi visitare e assistere al parto da medici maschi. Tuttavia Pasquali, e altri medici che trattano lo stesso argomento, vivevano in un tempo storico troppo maschilista per suggerire una soluzione che oggi pare ovvia: aprire le scuole di medicina anche alle donne e disegnare un percorso professionale specifico per le levatrici. No, la proposta era che le donne abbandonassero il pregiudizio di questo pudore e si facessero assistere dai medici. Pasquali chiude il libro con questa perorazione alle donne:
RispondiElimina«O sesso amabile, tu puoi conservare l'onestà e la saviezza in tutte le circostanze: il medico saprà aver tutti i riguardi alla tua delicatezza e mettere un velo in tutte le sue operazioni: la sua mano sarà cosi timida, e cosi innocente come quella di Origene: tu soffri, tu cimenti la tua vita, tu puoi perdere il frutto dell'amore, e sono circostanze queste da sentire l'impero del pregiudizio, e da lasciarsi ingannare dalla debolezza, e dall'errore? Possa finalmente la ragione riprendere i suoi dritti, e possa il costume di tante nazioni, e della Capitale, rendersi generale in tutte le provincie!».
[continua]
[seguito]
RispondiEliminaLa distinzione fra "Capitale" e "provincie" è significativa. Infatti, il ricorso al medico iniziò prima e si diffuse di più nelle città maggiori e poi pian piano si estese alle province. Ma quando io nacqui, nel 1944 a Piagge, in periodo ancora di guerra, mio padre non cercò, per mia madre, l'assistenza di un medico, perché ciò non era ancora in uso se non in casi di pericolo di morte, ma chiamò la levatrice del paese. E tutto il mondo agricolo in tutte le regioni d'Italia aveva ancora questo costume, come ne abbiamo testimonianza in tanti libri e film.
Il termine "mammana", più usato nell'Italia meridionale, era nel Medioevo e in Età moderna spesso sinonimo di tenutaria di case di tolleranza. In sostanza veniva usato, nelle Marche settentrionali, per indicare una "levatrice" non pienamente riconosciuta, clandestina - si potrebbe dire -, che praticava anche aborti e forme di assistenza al parto non sempre lecite o bisognose di segretezza. C'era pertanto una significativa distinzione fra "levatrice" e "mammana". Quando, a partire dalla metà dell'Ottocento, si cominciò a sviluppare un movimento per la professionalizzazione, l'associazione e la sindacalizzazione delle levatrici, in tutti i documenti si usa sempre il termine "levatrice" e mai "mammana" e quando negli ultimi decenni dell'Ottocento si arriva a una federazione nazionale, questa si chiama "Federazione Nazionale delle Levatrici". Ciò detto, va aggiunto che non mancano, sebbene più rari, i casi di uso positivo del termine "mammana". Uno l'abbiamo addirittura in un libro di un sacerdote, Girolamo Baruffaldi, edito a Trento nel 1760 col titolo «La mammana istruita per validamente amministrare il S. Sagramento del Battesimo in caso di necessità alle creature nascenti». Però si ponga attenzione alla data: 1760. Nel 1860 o nel 1960 nessuno avrebbe più usato quel termine in quel contesto.
Grazie Giovanni per questa pillola della storia dei nostri avi... Questi fatti ricordo quando mia nonna le raccontava nelle veglie invernali.
RispondiEliminaPovere figlie
RispondiEliminaPurtroppo ancora oggi tali sofferenze, anche se in forme diverse, si abbatte sulla pelle delle donne che sole, allora come ora, ne portano il peso
E in Sicilia dopo aver dato i neonati alle ruote le giovani venivano cacciate di casa e le loro madri si vestivano a lutto per cancellarne anche la memoria.