domenica 21 febbraio 2021

Covid 19 – Briciole di cultura - Come andremo a finire?

 di dott. Roberto Budassi - Medico Pediatra

Capitolo 5

È naturale che ognuno di noi desideri tornare al più presto a vivere esattamente come nell’era pre Covid. L’dea di una “nuova normalità”, fatta di mascherine, distanziamento, sanificazione delle mani e “andare al ristorante o a scuola in sicurezza” (che “sicurezza” non è mai, semmai è “con minor rischio”) non può essere accettata come normalità, è un modo di vivere ob torto collo, forzatamente. Personalmente sono certo che torneremo ad una esistenza in tutto sovrapponibile alla precedente, con normali rapporti interpersonali e la normale fruizione di tutti i servizi, ma non sappiamo quando e abbiamo molte incertezze sul come vivremo prima che ciò avvenga.


Come tutti i virus di questo tipo, anche il nostro “amico” tenderà ad andare verso una sorta di adattamento all’ospite, attraverso continue mutazioni e alla fine si ridurrà probabilmente allo stato di agente infettante innocuo o molto prossimo dall’esserlo, come è già accaduto agli altri coronavirus circolanti da molti anni e che attualmente sono causa di semplici raffreddori o di altre lievi malattie respiratorie. Qualcosa di simile potrebbe essere accaduta al virus influenzale che causò un secolo fa la cosiddetta Spagnola, scomparso improvvisamente dopo due anni di feroce pandemia, durante la quale sono decedute dai 30 ai 50 milioni di persone per la maggior parte giovani. Ma è ovvio che con le conoscenze attuali e l’attuale tecnologia non possiamo restare immobili ad attendere ed a sperare nel meglio, ma dobbiamo utilizzare tutto quanto è in nostro potere perché si giunga al più presto al termine di questo periodo buio. Da questo punto di vista le nostre armi più efficaci si chiamano anticorpi monoclonali per quanto riguarda la terapia e vaccini per quanto riguarda la prevenzione. Ed è soprattutto sui vaccini che il mondo scientifico (e non solo) si appoggia perché tutto viri al meglio e lo faccia velocemente, in quanto nessun sistema economico nel mondo potrà resistere all’attuale situazione per più di un certo numero di mesi, senza contare poi i danni psicologici ingravescenti dovuti al confinamento soprattutto a carico delle nuove generazioni. Attivare e portare avanti una efficace campagna di vaccinazione è così importante per la ripresa economica che tutti gli economisti, a cominciare per esempio da Cottarelli (già il 15 gennaio, intervista Rai) fino all’odierno discorso programmatico di Draghi, la mettono come precondizione ad ogni intervento di politica economica espansiva.

Tuttavia sono attualissimi gli allarmi sulle nuove varianti del SARS-Cov2 che si dice potrebbero essere meno sensibili ai vaccini ed ai monoclonali. A questo proposito è importante puntualizzare che il nostro coronavirus quando replica va inevitabilmente incontro a numerose mutazioni, tanto che il virus più circolante in questo momento, escluse quindi le più recenti varianti di cui si parla insistentemente (Inglese, Sudafricana e Brasiliana), non è lo stesso virus che ha iniziato a circolare nel mondo un anno fa e forse quello non era il virus che per primo è passato dagli animali all’essere umano. Tuttavia è molto difficile che una variante possa essere così diversa dai precedenti virus da risultare ampiamente resistente ai vaccini o alle terapie, perché contemporaneamente ridurrebbe in maniera significativa la sua capacità infettante; semmai potrebbe divenire un po’ meno sensibile. Ciò a dire che attualmente i nostri vaccini mantengono comunque una buona efficacia, se non altro nel prevenire la malattia grave, e che quindi è del tutto utile e necessario andare avanti con i programmi di vaccinazione globale, che contemplino la produzione in breve tempo di miliardi di dosi e la somministrazione altrettanto rapida all’intera popolazione in ogni stato della Terra, perché è solo così che si potrà ridurre la replicazione virale e ottenere un impatto positivo e definitivo sulla pandemia. È un’operazione titanica, certamente, ma non impossibile.

Il problema più attuale delle campagne vaccinali riguarda l’insufficienza delle dosi prodotte, poiché le aziende che sono arrivate al termine della sperimentazione sono molto poche, Pfizer, Moderna, Astra Zeneca, Sputnik ed alcune cinesi, e di queste solo i vaccini delle prime tre sono stati approvati in occidente, ma dobbiamo tener ben presente che ci sono oltre cento vaccini in fasi più o meno avanzate di sperimentazione e che già dal mese di aprile si prevede che avremo un così alto numero di dosi totali in Europa ed in Italia, che dobbiamo seriamente porci il problema di come riuscire a somministrarli “a tutto spiano”, per utilizzare un’esplicativa espressione di Walter Ricciardi, il consigliere scientifico del ministro Speranza. Uno per tutti il vaccino messo a punto dallo Spallanzani e dall’azienda ReiThera, attualmente in sperimentazione, ma con ottime referenze iniziali e la possibilità di concludere entro l’estate, del quale avremo a disposizione in Italia 100 milioni di dosi all’anno verosimilmente dal prossimo autunno.

E se il virus nonostante tutto mutasse in maniera sostanziale? Con tutto quello che si sta muovendo, in futuro non sarebbe certamente difficile attrezzarsi per effettuare richiami con versioni continuamente aggiornate dei vaccini, che godrebbero di una rapidissima approvazione per l’utilizzo, un po’ come avviene per il vaccino stagionale dell’influenza. In conclusione la situazione attuale, pur nella sua fluidità, non è tale da celare la luce ora ben visibile in fondo al tunnel. Una luce che vorremmo divenisse accecante entro la fine dell’anno in corso.

Ma cosa potrà accadere nel momento in cui si inizierà a vaccinare in maniera più intensiva? Qualche indicazione la possiamo trovare osservando chi è più avanti di noi. Israele, la cui campagna di vaccinazioni è iniziata il 20 dicembre, ha vaccinato quasi il 50% dei suoi 9 milioni di abitanti con una prima dose ed il 28% anche con la seconda; in particolare l’80% degli ultrasessantenni ha ricevuto almeno una dose di vaccino. I risultati fino a questo punto sono confortanti: il vaccino ha protetto completamente il 95% dei vaccinati e da metà gennaio a inizio febbraio le ospedalizzazioni per gli ultrasessantenni sono diminuite del 31% ed i casi del 41%. Con quasi la metà della popolazione vaccinata almeno con una dose, Israele sta riaprendo i centri commerciali, i musei, le librerie, ecc. mentre i vaccinati, dotati di una specie di pass elettronico, possono accedere alle piscine, partecipare ad eventi culturali e alloggiare negli alberghi.

Sarebbe auspicabile una situazione simile nel nostro paese per inizio estate: anziani vaccinati in gran parte ed un’altra parte significativa della popolazione generale vaccinata con almeno una dose. Come in Israele e con l’aiuto dalla buona stagione, potremo ottenere lo svuotamento dei reparti Covid negli ospedali. Confidando fortemente che nessuno faccia lo stesso errore di un anno fa e cioè di considerare l’epidemia superata e quindi ritenere inutile la vaccinazione, quello sarà il momento di spingere molto forte sulla campagna vaccinale, per poterci presentare alla stagione autunnale con il maggior numero possibile di persone protette.

Si è accennato al fatto che Israele offra una maggior libertà ai soggetti con certificato di vaccinazione rispetto a chi vaccinato ancora non lo è; si tratta certamente di una discriminazione, ma temporanea, in quanto si suppone che con i loro ritmi tutti gli abitanti passeranno velocemente nella categoria dei vaccinati. Si sta iniziando a discutere se uno scenario simile sia immaginabile in Italia, in Europa e nel resto del mondo, ma almeno per il nostro paese si deve tener conto della attuale non obbligatorietà della vaccinazione, dei diritti assicurati dalla legge sulla privacy e forse anche di altre variabili che non consentirebbero di discriminare anche momentaneamente una parte dei cittadini. È tuttavia evidente che la presenza nella popolazione di un certo numero di persone che potrebbero tenere vivo il contagio, seppure a bassa o bassissima intensità, potrebbe rappresentare un grosso problema, ed anche la convivenza fra soggetti vaccinati e non, in spazi sia aperti che chiusi, potrebbe portare a situazioni di non facile soluzione. In effetti alcuni albergatori hanno già dichiarato che non sarà loro intenzione ospitare soggetti non vaccinati per non doversi trovare in ulteriori difficoltà gestionali ed economiche ed auspicano che la popolazione possa ottenere una specie di “passaporto vaccinale” come in Israele.

Terminano qui i miei interventi su questo blog riguardanti la pandemia da SARS-Covi, un argomento gigantesco, di cui ho scelto solo alcuni aspetti che ho ritenuto fondamentali, sfrondando una lunghissima serie di poco utili discussioni che si sono accavallate nel corso di questi ormai non pochi mesi pandemici. Ho cercato di puntare l’attenzione su quanto ci è utile conoscere per guidare i nostri comportamenti, soprattutto al fine di tendere tutti assieme verso la soluzione del problema, che per quanto complessa, è comunque alla nostra portata, ed è indissolubilmente legata alla nostra capacità di vaccinare l’intero pianeta.

domenica 14 febbraio 2021

Vantaggi competitivi-Prima parte

 di Pierluigi Venturi

Mantenendo fede all’impegno assunto nello scorso ottobre, con questo articolo continuo il percorso che dovrebbe portarci ad accrescere il nostro bagaglio culturale per affrontare contesti di mercato sempre più dinamici. Oggi iniziamo a ragionare insieme su un concetto fondamentale del fare impresa: il Vantaggio competitivo.

Che cos’è un vantaggio competitivo? Come si fa a crearlo ma soprattutto, come si fa a mantenerlo?

Sono interrogativi che non fanno dormire gli imprenditori la notte, in quanto sono la chiave per poter stare sul mercato; sicuramente anche la base di studio di qualsiasi consulente, professore, ricercatore che cerchi di comprendere questo nuovo contesto competitivo generato dalla 4° rivoluzione industriale.

“Si racconta che uno dei motivi per cui la Germania vinse i Mondiali del ’54 contro l’Ungheria fu proprio un Vantaggio Competitivo, che nella definizione accademica di Wikipedia è descritto come ciò che costituisce la base delle performance superiori registrate rispetto alla media dei concorrenti diretti nel settore di riferimento.

Ma quale fu il Vantaggio Competitivo che permise ai tedeschi di vincere la Coppa del Mondo contro ogni pronostico? La memorabile partita del 4 Luglio 1954, nelle cronache sportive descritta come Il Miracolo di Berna, si disputò appunto in Svizzera davanti a 64.000 spettatori, e venne preceduta da una forte pioggia che rese il terreno molle e scivoloso. Il Vantaggio Competitivo Germanico era proprio lì sotto, nelle scarpe con cui i tedeschi riuscirono a sentirsi ancora leggeri ed elastici mentre davanti a loro gli ungheresi, con due carri armati ai piedi, affondavano ogni minuto di più. Gli scarpini Adidas avevano infatti una tecnologia allora unica: i tacchetti intercambiabili. Nel pantano d’erba e terra bagnata, avvenne così “il Miracolo di Berna”, i tedeschi avevano tacchetti lunghi e correvano e la partita finì 3 a 2. L’Ungheria era più forte ma la Germania aveva un Vantaggio Competitivo che la fece prevalere……La ricostruzione tedesca dopo la disfatta della II Guerra Mondiale, forse ricominciò proprio da lì, da un’inaspettata vittoria della Coppa del Mondo e grazie al Vantaggio Competitivo vero, consistente e fruibile che l’imprenditore Adi Dassler aveva inventato”.

Lo stralcio dell'articolo (Sole24h del 25-10-2018) sopra riportato credo che chiarisca piuttosto bene il concetto di vantaggio competitivo. Sicuramente con il senno di poi, l’Ungheria, se avesse avuto la possibilità di rigiocare la partita, si sarebbe organizzata ed il vantaggio competitivo della Germania sarebbe stato superato. 

A mio parere, il cambio di approccio che occorre avere nei confronti del vantaggio competitivo rappresenta uno dei cambiamenti più importanti che le imprese devono affrontare oggi, pena il rischio concreto di uscire dal mercato. Il continuare a ragionare di vantaggi competitivi come si faceva un tempo lo considero non solo un sintomo ma il manifestarsi concreto dell’Artigianite, come ho già avuto modo di dire nel mio libro.

Andiamo per ordine!  Non tutto quello che abbiamo imparato è da buttare, anzi, lo dobbiamo studiare e ristudiare per andare oltre!

Se si parla di vantaggi competitivi non si può che partire dall’economista, professore statunitense Michael Porter che ha scritto davvero tanto sulla competizione. Con il libro dal titolo “Competitive Advantage” del 1985 ha affrontato in modo sistematico il concetto di vantaggio competitivo e ha creato la famosa catena del valore di Porter (cfr. Fig.1).

Catena del Valore di Porter

Figura 1- Fonte Michael Porter. Competitive Advantage 1985

La figura 1 mi ha   affascinato da sempre perché al di là della distinzione tra attività primarie ed attività di supporto, comunica immediatamente quello che deve essere l’orientamento di ogni attività aziendale: seguire la “freccia” del margine.   

Il minor costo come Vantaggio Competitivo è il primo aspetto che si esamina ogni volta che si parla della catena del valore di Porter. A seguire la differenziazione ed infine, ma non come ultimo, la focalizzazione. Ora io mi chiedo, prima di partire con qualsiasi disamina, una PMI o una Micro impresa riuscirà mai a diventare un leader di costo nel suo settore di riferimento? Pensando a quale mercato di riferimento?  Avere un vantaggio di costo significa ottenere un costo cumulativo più basso per svolgere le attività generatrici di valore rispetto ai nostri concorrenti. Detto questo significa conoscere bene i nostri costi e quelli dei concorrenti. Tuttavia mi sorge spontanea anche la seguente domanda: siamo certi di conoscere tutti i nostri concorrenti? Non mi sto riferendo solo al fatto che potrebbero abitare dall’altra parte del mondo ma piuttosto, che in questo momento potrebbero svolgere attività che non attengono direttamente al nostro settore.

La differenziazione come vantaggio competitivo, da non confondere con la diversificazione di cui parleremo dopo, è la capacità dell’impresa di imporre un premium price per i propri prodotti superiore ai costi sostenuti per differenziarli, cioè dotarli di caratteristiche uniche che abbiano valore per i propri clienti al di là della semplice offerta di un prezzo basso. Si può manifestare potenzialmente ovunque, nella catena del valore: ogni attività può essere fonte di unicità. Il successo può nascere anche da una sola attività vincente (vedi Caterpillar nella sua rete di assistenza).  Creare un brand è un’altra forma di differenziazione. Evidentemente, manco a dirlo dipende dal percepito dei clienti e quindi come riusciamo a comunicarlo. Oggi siamo tempestati da comunicazioni pubblicitarie che indicano l’unicità del prodotto che stanno promuovendo. Nel mondo digitale, come dice Gaito nel suo libro (Growth Hacker. Mindset e strumenti per far crescere il tuo business.2017), “viviamo in un’epoca dove la realizzazione di un prodotto digitale (un’app, un blog, un e-commerce) è alla portata di tutti, anche di chi non ha conoscenze tecniche avanzate. Il vero problema nasce dopo la realizzazione del prodotto, ed è quello di riuscire a portarlo nei computer e negli smartphone dei tuoi potenziali utenti. Entrare nei loro uffici e nelle loro tasche.” Questa cosa non vale solo per i prodotti digitali, perché per poter affermare che il mio prodotto è differente devo comunque “entrare nelle tasche” dei miei clienti. Molte delle nostre imprese artigiane e PMI sono convinte di avere prodotti differenti, più belli rispetto a quelli che normalmente si trovano sul mercato e a costi più bassi. Inoltre, se parlavamo di turismo, prima dell’arrivo del Covid-19, sentivamo affermare molto spesso che abbiamo i posti più belli al mondo, il cibo più buono, ma non riusciamo a comunicarlo. Come se fosse una giustificazione! David Meerman Scott, famoso marketer americano, ha affermato: “la verità è che a nessuno frega niente del tuo prodotto, tranne che a te!”   

In prima battuta, potrebbe sembrare una risposta brusca e maleducata, tuttavia viviamo in un mondo in cui è davvero difficile differenziare i nostri prodotti e servizi e se vogliamo farlo, occorre in primis affrontare la realtà, faticare, pensare, ripensare, sperimentare, verificare e decidere, consapevoli del fatto che, puntando solo sulla differenziazione, potremmo incappare in un cliente che non è affatto interessato al nostro prodotto “differente” su cui noi abbiamo speso tante energie. Inoltre, laddove dovessimo trovare riscontro avremmo comunque il rischio della contraffazione o l’imitazione. Altrettanto vero che possiamo cercare di difenderci con brevetti, ma ne vale sempre la pena? Ovviamente il limite è sempre quello dell’analisi costi benefici. 

Continuando con lo schema Porter vediamo la focalizzazione come Vantaggio Competitivo. Creare un prodotto qualitativo per una nicchia di mercato o comunque far parte di un settore di nicchia può essere un vantaggio. Se penso alla mia esperienza di imprenditore per il settore nautico, sicuramente posso dire che per un certo periodo ho beneficiato di questa tipologia di vantaggio competitivo. Semplicemente per il fatto di far parte di questo settore che, pur avendo dimensioni mondiali, può essere considerato un settore produttivo di nicchia, avevo un vantaggio competitivo.  Tuttavia con il passare del tempo e con le trasformazioni avvenute nello stesso settore, dove qualità e competenze dell’approccio artigianale di un tempo, stavano progressivamente cedendo il passo ad un approccio più di stampo industriale, ho dovuto comunque fare riferimento ad altre leve come il contenimento dei costi attraverso una migliore organizzazione, l’investimento in un nuovo modo di progettare e monitorare le attività ed introdurre elementi di differenziazione del mio prodotto.

Per il vantaggio competitivo di focalizzazione possiamo individuare due rischi principali: la massa critica della nicchia o l’incapacità di soddisfare le sue esigenze per diversi motivi.

Come detto sopra la diversificazione può rappresentare un vantaggio competitivo e soprattutto un’assicurazione nei confronti di un settore che potrebbe andare incontro a difficoltà. Con il termine diversificazione intendiamo diverse cose che possono essere riassunte dall’efficace definizione di wikipidea: la diversificazione è la crescita basata su nuovi mercati e nuovi prodotti.  Un'impresa che opera su più settori è quindi un'impresa diversificata. 

Igor Ansov conosciuto anche come Anstoff produsse una matrice dove mise in relazione i prodotti ed i mercati in cui emergono sostanzialmente quattro modalità per diversificare.

La modalità orizzontale: produzioni nuove per gli stessi clienti (la meno rischiosa); la modalità correlata o concentrica: nuove attività strategiche (per esempio, si utilizzano competenze tecniche esistenti); la modalità conglomerale: estensione dell'attività verso aree completamente nuove. Nuovi mercati e nuovi prodotti, nuovi clienti con nuove tecnologie; la modalità verticale: l'impresa destina a sé stessa la nuova produzione.

I motivi per i quali le imprese in generale, senza distinzioni dimensionali, adottano strategie di diversificazione sono molteplici: si vogliono ripartire i rischi  su diversi business per non dipendere troppo da uno solo; diminuiscono le opportunità di mercato nel settore in cui l’impresa opera e c’è una stagnazione delle vendite; vi sono interessanti opportunità di espansione in settori con tecnologie e prodotti che integrano il business esistente; le risorse e competenze a disposizione dell’impresa costituiscono fattori chiave di successo per competere in altri mercati; vi sono buone opportunità di riduzione dei costi operando anche in business correlati; si può sfruttare un forte brand in altri ambiti per incrementare le vendite; inoltre per ridurre il rischio del settore e della filiera di appartenenza ed utilizzare i medesimi canali informativi per la ricerca e per l’innovazione, ecc...

Le modalità attraverso le quali operano le imprese per poter ottenere il vantaggio competitivo da diversificazione sono sostanzialmente quelle che vi evidenzierò di seguito: attingendo a competenze esterne o interne, con riferimento a business correlati o non correlati a quello di riferimento, con i pro e i contro in tutte le combinazioni.

Due esempi su tutti per chiarire. Il marchio Sony, come sappiamo si è affermato inizialmente nell’elettronica di consumo ed ha reso agevole ed economico l’ingresso dell’impresa nei mercati dei videogiochi con la console Playstation, favorito dal suo brand e dal mercato correlato utilizzando risorse interne ed esterne. L’altro esempio è General Electric che ha diversificato in settori che spaziano dai materiali tecnici ai servizi finanziari per privati ed ha acquisito/sviluppato imprese, da motori jet per aeromobili militari e civili, ad apparecchiature medicali. Evidentemente ha operato una diversificazione non correlata che, consiste nell’entrare in business che presentano catene del valore totalmente scollegate e prive di rapporti incrociati. In quest’ultimo caso l’impresa che opera questo livello di diversificazione lo fa seguendo le logiche finanziarie che, significano seguire tutti i settori con opportunità di crescita e di redditività.

Figura 3. Vantaggio competitivo come strumento per superare la crisi

In figura 3 ho riportato un’immagine che girava sul web e che mi trova molto d’accordo, relativamente alla possibilità di superare le crisi con la differenziazione e la diversificazione, considerandoli come i veri vantaggi competitivi in grado di farlo e pensare alla riduzione di costo come attività fondamentale, ma che non garantisce da sola nel lungo periodo la permanenza sul mercato.

Le crisi che ogni impresa deve affrontare possono essere di diverso tipo: riguardare la singola azienda, il settore di appartenenza, il sistema economico in generale o di alcune parti di esso ma, certamente, avere dei vantaggi competitivi è la chiave per poterle superare più facilmente. Riguarda quindi tutte le imprese che stanno sul mercato, indipendentemente dalle loro dimensioni. 

Ovviamente una PMI o una ditta artigiana possono avere meno vantaggi competitivi su cui puntare rispetto ad una grande azienda, soprattutto se occorrono dei capitali da cui partire. Tuttavia è mia profonda convinzione che, fatte le giuste proporzioni, debbano avere lo stesso approccio: la ricerca costante di vantaggi competitivi. 

Avere consapevolezza di questo e decidere su cosa puntare sono scelte strategiche che devono essere ben ponderate. E’ fondamentale avere una cultura del dato diffusa in azienda, compiere un'analisi SWOT per verificare i punti di forza e di debolezza, verificare il proprio settore di riferimento con il modello delle 5 forze competitive di Porter, dedicare una parte del budget in sperimentazioni per poi concentrarsi su quelle che funzionano ed infine, ma non da ultimo, ragionare fuori dagli schemi per ricominciare da capo l’analisi, perché come detto sopra dobbiamo riuscire ad andare oltre. Evidentemente dobbiamo tenere conto anche del timing, non possiamo impiegare anni per fare questa analisi, altrimenti il mercato nel frattempo è cambiato ulteriormente e finiamo per fare un esercizio sterile. Ad ogni modo la scelta dei vantaggi competitivi è una decisione strategica che dovrà essere formalizzata   per poter essere poi monitorata. Non la si può fare in cinque minuti!



giovedì 11 febbraio 2021

Covid 19 – Briciole di cultura - Come ti ho fatto un vaccino in pochi mesi

 a cura di  Roberto Budassi - Medico Pediatra

Capitolo 4 

Quando veniamo infettati per la prima volta da un virus o un batterio, il nostro organismo mette in atto una specifica risposta immunitaria di difesa, attivando una serie di cellule specializzate, alcune che producono anticorpi, detti anche immunoglobuline – Ig, (linfociti B), altre che sono in grado di distruggere le cellule infettate (linfociti T citotossici) e altre che sono in grado di riconoscere il germe in caso di una nuova infezione (linfociti T della memoria). Si assiste dapprima alla produzione di anticorpi della classe IgM, più grossolani e di efficacia ridotta, per arrivare nel volgere di un certo numero di giorni a quelli di classe IgG, molto più affini all’obiettivo, quindi più efficaci ed anche più duraturi. Il problema è che nel lasso di tempo che intercorre fra l’infezione e in momento in cui le difese diventano efficaci è possibile che si sviluppi una malattia che può risultare anche molto grave ed a volte fatale.

Ovviamente chi ha superato la malattia ha prodotto una certa quantità di anticorpi IgG che lo hanno guarito e che lo difenderanno per un certo periodo di tempo da una eventuale nuova infezione con lo stesso germe. È il discorso del plasma “convalescente” di cui abbiamo trattato in precedenza. Non solo, ma in caso di reinfezione verranno prodotti rapidamente ulteriori anticorpi IgG da parte di linfociti B a loro volta attivati dai linfociti T della memoria immunitaria, i quali anticorpi si sommeranno a quelli già presenti in circolo. È anche possibile che entrino in gioco i linfociti T citotossici arruolati nel corso della prima infezione. Questo complesso processo che si attiva nel momento di una eventuale reinfezione è detto risposta secondaria ed è solitamente in grado di impedire l’instaurarsi di una seconda malattia, quanto meno nelle forme più gravi.

L’azione dei vaccini è proprio questa: suscitare una robusta risposta secondaria senza prima dover passare attraverso i rischi della malattia naturale dovuta alla prima infezione. Per fare ciò un vaccino deve essere in primis immunogenico, cioè capace di attivare una risposta immunitaria, la qual cosa si può controllare attraverso il dosaggio degli anticorpi IgG, e poi per via degli anticorpi prodotti deve risultare anche protettivo, e questo lo possiamo verificare attraverso la sperimentazione sul campo, ne parleremo più avanti. In sostanza la risposta immunitaria indotta dal vaccino deve dare origine ad una buona quantità di anticorpi e che siano quelli giusti, cioè in grado di neutralizzare il germe incriminato, altrimenti sarebbe come una zecca che stampa soldi falsi. Infine, la citiamo per ultima ma è una qualità irrinunciabile che va considerata per prima, un vaccino deve dimostrare di un buon profilo di sicurezza, cioè non causare effetti indesiderati così importanti da sconsigliarne l’utilizzo.

Dobbiamo anche puntualizzare che un vaccino risulta protettivo anche se non induce la produzione di tutti gli anticorpi che si sviluppano durante la malattia naturale. Infatti per neutralizzare un qualsiasi germe patogeno è sufficiente disporre anche di pochi anticorpi, ma che siano in grado di interferire efficacemente su di una sua funzione fondamentale. Nel caso del SARS-Cov2, tutti i vaccini, indipendentemente da come siano stati costruiti, stimolano la produzione di anticorpi IgG diretti verso la proteina Spike del virus che, come abbiamo visto in precedenza, è fondamentale perché il virus possa entrare nelle cellule. Bloccando la funzione della proteina Spike, il virus non può entrare nella cellula e l’infezione non può avvenire. Abbiamo già visto che diversi anticorpi monoclonali hanno lo stesso meccanismo d’azione.

In realtà produrre un vaccino è una lunga e complessa operazione che dall’ideazione all’ingresso nella pratica clinica, passando attraverso varie fasi sperimentali, diverse autorizzazioni e poi processi industriali, necessita generalmente di molto tempo, in media di circa 10 anni.

Tuttavia i primi vaccini contro il Covid sono entrati nella pratica clinica dopo appena 10 mesi di sperimentazione, e ciò è stato realizzato senza scorciatoie e rispettando tutte le cautele necessarie, nello stesso standard di tutti i vaccini già in uso verso altre malattie. In altre parole la grave situazione pandemica ha reso necessaria la messa in campo di ogni azione in grado di abbreviare i tempi di ciascuna fase, ma senza nulla concedere alla fretta. Potremmo riassumere i cardini di questa operazione in cinque punti fondamentali:

1.      Rapida divulgazione delle nuove conoscenze fra i ricercatori; inoltre immediata adesione alla ricerca da parte dei migliori centri universitari e i migliori ospedali nel mondo. Trovare il supporto scientifico di centri “di livello” costa molto tempo: almeno un anno risparmiato.

2.      Utilizzo di tecnologie già note. Trattandosi di un coronavirus simile a SARS-Cov e MERS-Cov (di cui abbiamo già parlato nel capitolo 2) i metodi per produrre i vaccini erano già pronti. Fino a 5 anni risparmiati.

3.      Finanziamenti immediati e sicuri da parte degli Stati, rischio finanziario zero a carico delle aziende, che non solo non hanno risparmiato sforzi nella ricerca, ma hanno anche prodotto considerevoli quantità di vaccini prima del termine della sperimentazione e della successiva approvazione (che poteva anche non arrivare) e hanno reso i primi lotti immediatamente disponibili. Fino a 3 anni risparmiati.

4.      Sperimentazione ultra-rapida:

a.      Non sono stati necessari studi su colture cellulari, già noti con SARS e MERS: un anno risparmiato.

b.     Stante la gravità della situazione, si sono resi disponibili immediatamente tutti i volontari necessari, tanto che il reclutamento è terminato in poche ore invece di molti mesi: un anno risparmiato.

c.      Le fasi sperimentali di sicurezza e immunogenicità (fasi 1 e 2) sono state portate avanti assieme, circa 6 mesi risparmiati.

d.      La fase sperimentale 3, in cui si saggia l’efficacia del vaccino sul campo, è stata brevissima. In questa fase un certo numero di volontari viene trattato con il farmaco in studio, nel nostro caso il vaccino contro il Covid, ed un numero simile viene trattato con un placebo, un finto vaccino, cioè una sostanza priva di qualsiasi azione farmacologica, senza che né il volontario e nemmeno lo sperimentatore conoscano a chi sia stato somministrato il farmaco e a chi il placebo (sperimentazione in “doppio cieco”). La sperimentazione di fase 3 cessa al raggiungimento di un certo numero di casi di malattia, la qual cosa in genere può richiedere anche anni. Nel nostro caso l’obiettivo è stato raggiunto in soli alcuni mesi, in quanto sono stati coinvolti molti più volontari del solito (decine di migliaia, invece di alcune migliaia), poi tracciati in zone ad alta densità di contagio (Brasile, India e USA, per esempio).

5.      Generalmente l’enorme mole di dati prodotta nel lungo periodo di sperimentazione viene trasmessa in blocco agli organi regolatori (per es. FDA. negli USA, EMA per l’Europa e AIFA in Italia) solo al termine della sperimentazione stessa, i quali organi regolatori impiegano mediamente da uno a 3 anni per studiarli ed infine per autorizzare l’utilizzo clinico del farmaco o vaccino che sia. Questa fase è stata enormemente compressa, utilizzando la tecnica della cosiddetta “rolling review”, per cui i dati sono stati trasmessi agli organi regolatori alla fine di ciascuna fase sperimentale, rendendoli edotti sui risultati in tempo reale. Alla richiesta di autorizzazione l’esame dei pochi dati rimasti è stato rapido e immediato. Da uno a tre anni risparmiati.

Con questo capitolo abbiamo concluso la trattazione di alcuni aspetti fondamentali di questa nuova malattia, per certi versi straordinaria ed unica. Abbiamo trattato della incredibile possibilità di espansione del contagio, di quanto possa risultare grave il processo patologico, abbiamo accennato alle poche ma sempre più efficaci armi che abbiamo per curarla ed ai mezzi per prevenirla, cioè dei vaccini. Il prossimo e ultimo capitolo tratterà degli scenari futuri, in cui analizzeremo le variabili che influiscono su ciascuno degli aspetti precedentemente trattati.

giovedì 4 febbraio 2021

Covid 19 - Briciole di cultura - Difendiamoci!

 a cura di Roberto Budassi - Medico pediatra

Capitolo 3


Alla segnalazione dei primissimi casi di Covid-19 in Cina nel gennaio di un anno fa, l’intero mondo scientifico si è mosso e con gli attuali mezzi di indagine non è stato difficile caratterizzare rapidamente il virus e capire come si sviluppava la malattia, specie nella forma grave, quella che spesso porta all’exitus. In effetti quella che in un primo tempo veniva considerata semplicemente una grave forma di polmonite bilaterale, in realtà era un processo patologico molto più complesso. E fu presto chiaro che la malattia decorre in tre fasi  schematizzate nella figura sotto: nella prima fase prevale la replicazione virale; nella seconda il virus raggiunge il tessuto polmonare e causa una polmonite bilaterale evidenziabile principalmente con la TAC econtemporaneamente si instaura una risposta iper-infiammatoria da parte dell’organismo del paziente; durante la terza fase l’infiammazione si intensifica ulteriormente, ormai svincolata dalla persistenza o meno di forme attive del virus e si possono verificare le complicazioni più temibili, specialmente a carico del cuore, dei reni e del tessuto polmonare che sempre più viene distrutto dall’imponente stato infiammatorio. Il tutto è aggravato da una sorta di iper-coagulazione del sangue che causa innumerevoli trombi a carico di vari organi. È evidente che si tratta di una situazione molto grave che in numerosi casi può portare al decesso del paziente.



Come ci si difende da una simile catastrofe?

È scontato che le nostre strategie devono per prima cosa impedire che il paziente raggiunga la fase 3, che devono interrompere la progressione del processo patologico preferibilmente già in fase 1 o in fase due iniziale. Occorre anche tener conto che sostanzialmente tutti i pazienti in fase 1 si trovano a domicilio e che quando un paziente viene ricoverato di solito si trova in fase 2 più o meno avanzata. I pazienti in fase 3, a meno di una progressione particolarmente veloce, si trovano già in ospedale da giorni. Infine è anche bene puntualizzare che sia l’ossigeno e i sostegni alla respirazione in genere, necessari per superare le forme gravi di difficoltà respiratoria, sia gli antibiotici, utilizzati per prevenire e/o trattare le sovrainfezioni batteriche specie in ospedale, non hanno un ruolo fondamentale al fine di bloccare il visus e arrestare la progressione della malattia, pur essendo indispensabili per mantenere in vita il paziente in attesa di un miglioramento.

Detto ciò, nella prima e seconda fase possiamo utilizzare tutti i farmaci che si oppongono alla replicazione virale, per esempio gli antivirali veri e propri, ma quelli testati finora hanno mostrato un’attività da scarsa a discreta, ma non risolutiva. Sono tra l’altro costosi e poco maneggevoli a domicilio e quindi spesso vengono utilizzati in ospedale in fasi poco precoci. Il cortisone invece è un farmaco estremamente importante per l’azione antinfiammatoria di cui è dotato ed è il farmaco principale per ostacolare la progressione verso la fase 3 e come è noto può essere somministrato anche a domicilio, come pure gli anticoagulanti utili nella profilassi delle tromboembolie. In molti casi, ma purtroppo non sempre, queste terapie sono in grado di arrestare la malattia e favorire la guarigione.

Nel caso di pazienti con andamento più problematico, in fase 2 o 3 per rifarci al nostro schema, si è molto discusso dell’utilizzo del plasma iperimmune, detto anche “convalescente” perché ottenuto dal sangue di soggetti guariti, i quali ovviamente hanno prodotto anticorpi verso il virus. È una terapia nota da circa un secolo e può anche fornire in diversi casi un contributo decisivo verso la guarigione. Tuttavia il plasma convalescente non è un “prodotto” standardizzato, in quanto non conosciamo la qualità degli anticorpi che vi si trovano, essendo potenzialmente un miscuglio diverso per ogni singolo donatore. È evidente inoltre che la disponibilità di plasma dipende dal reperire donatori in numero adeguato e tra l’altro non tutti sono idonei.

Superiamo i problemi del plasma iperimmune utilizzando in terapia i cosiddetti “anticorpi monoclonali”, con i quali mettiamo in atto terapie farmacologiche molto più efficaci e mirate. Gli anticorpi monoclonali sono anticorpi tutti uguali e vengono prodotti in laboratorio da una unica linea cellulare con tecniche molto consolidate e vengono impiegati da molti anni nella terapia delle forme gravi di alcune malattie (artriti croniche, tumori maligni, per esempio). Hanno il vantaggio di poter essere prodotti in quantità illimitata, di essere molto puri, molto più attivi del plasma e quindi efficaci anche in quantità molto piccole. Quindi una volta individuato uno o più anticorpi in grado di bloccare il virus in una qualche fase della sua replicazione, lo si produce in laboratorio mediante una linea di cellule che genera solo quello. Nel nostro caso si è puntata l’attenzione sulla proteina Spike del coronavirus. 

La proteina Spike costituisce appunto la “corona” e serve al virus per agganciarsi a speciali strutture che si trovano sulla superficie delle cellule, dette recettori ACE2, entrare nella cellula e dare il via all’infezione e quindi alla malattia. Un anticorpo che fosse capace di legarsi alla proteina Spike e quindi di impedire l’interazione tra la proteina Spike e il recettore ACE2 sarebbe potenzialmente in grado di impedire l’attivazione coronavirus e di conseguenza potrebbe arrestare o persino prevenire la malattia, se somministrato prima del contagio. Al momento vi sono numerosi anticorpi monoclonali in sperimentazione ed alcuni sono già stati utilizzati, ma non in Italia. I risultati sono molto promettenti (per esempio un monoclonale prodotto in Italia dalla Eli Lilly ha dimostrato di poter arrestare la progressione verso la fase 3 nel 70% dei casi) ed effettivamente quanto saranno entrati nell’utilizzo routinario (al momento si stanno facendo pressioni perché lo si faccia immediatamente) potrebbero rappresentare il fulcro della terapia, quando somministrati nelle fasi precoci della malattia.

Se da un lato ci auguriamo di dare una svolta decisiva alla terapia del Covid-19 con gli anticorpi monoclonali, dall’altro appare chiaro che solo con i vaccini avremo la possibilità di interrompere rapidamente e definitivamente la pandemia. Di questo tratteremo nel prossimo capitolo.