sabato 12 dicembre 2020

Applicazioni del Sistema del Margine di Contribuzione

di Luciano Giambartolomei 

Il sistema del margine di contribuzione

Questo sistema, come detto nel precedente articolo, è un vero modello economico aziendale perché tiene simultaneamente conto:

   DI DOVE si formano i costi (in quale reparto?)

DI DI COME si formano i costi (sono variabili? Sono fissi?)

Il sistema del margine di contribuzione introduce la discriminazione fra costi variabili e costi fissi.

 Il sistema del margine di contribuzione suddivide i costi in tre gruppi:

·       Costi variabili

·       Costi fissi di reparto

·       Costi fissi aziendali

                       

Costi variabili

Sono costi che variano al variare del volume di produzione, ma in questo caso va sottolineata soprattutto la loro caratteristica di essere dei costi associati al prodotto e non alla struttura. Fanno parte dei costi variabili i seguenti:

          Manodopera diretta                                                  € 1.800.000

          Materiali di consumo                                                    120.000

          Forza motrice                                                              120.000

          Interessi passivi su crediti a clienti                                 190.000

          ………………………………………                                  …………

Costi variabili                                                         € 2.230.000

Questi costi sono quelli che l’azienda sostiene solo se produce, chiaro essendo che se non si produce:

- non utilizza manodopera diretta;

- non utilizza materiali di consumo;

- non consuma forza motrice;

- non ha bisogno di concedere credito alla clientela che acquista i suoi prodotti e quindi non sostiene costi relativi ad interessi passivi pagati alle banche che anticipano il controvalore delle fatture emesse.

 

Costi fissi di reparto

Sono costi che restano costanti al variare del volume di produzione, ma che sono imputabili direttamente e con chiarezza ai reparti in cui sorgono.

Fanno parte dei costi fissi di reparto i seguenti:

- Manodopera indiretta                                                           270.000

- Impiegati tecnici                                                                   110.000

- Ammortamento fabbricato                                                      60.000

- Ammortamento macchine                                                      500.000

- Interessi passivi su mutuo                                                     800.000

- Illuminazione, riscaldamento                                                  120.000

- ………………………………..                                                  …………

Costi fissi di reparto                                                           1.860.000                    

Questi costi sono tipici costi di struttura; ma sono costi di cui si avvarranno soltanto esclusivamente i prodotti che subiranno lavorazioni e trasformazioni negli specifici reparti.

In altri termini:

- In quanto costi fissi, dipendono da decisioni prese in passato per cui non sono influenzabili dalle decisioni attuali dell’imprenditore.

- In quanto imputabili ad uno specifico reparto, è necessario tenerne conto solamente per i prodotti che, essendo lavorati nel relativo reparto, ne usufruiscono.

(Non è lecito gravare di tali costi i prodotti che, non subendo alcuna lavorazione nel reparto, non hanno assolutamente usufruito della manodopera indiretta, degli impiegati, delle macchine, … del reparto stesso).

Costi fissi aziendali

Sono costi che restano costanti al variare del volume di produzione e che non sono imputabili a nessuno specifico reparto in quanto sostenuti in comune per l’intera gamma delle attività aziendali.

Di essi è impossibile valutare con precisione il contributo apportato alla fabbricazione di ciascun singolo prodotto.

Fanno parte dei costi fissi aziendali i seguenti:

- Impiegati amministrativi e commerciali                                 150.000

- Postali, telefoniche, cancelleria                                              50.000

- Viaggi e rappresentanza                                                       60.000

- Pubblicità e fiere                                                                  150.000

- ……………………………………….                                         ………..

Costi fissi aziendali                                                               410.000

Questi costi sono tipici costi di struttura; ma non basta. Essi sono di natura tale che non è possibile individuare nessun metodo per imputarli ad uno specifico reparto in quando sono sostenuti in comune, a vantaggio dell’intera attività aziendale e della relativa immagine.

Ai suddetti costi bisogna aggiungere la quota di costi variabili e di costi fissi di reparto precedentemente imputati al Reparto Indiretto (vedi ultima colonna della tabella allegata).

Tabella 1

La tabella 01 dà le incidenze di ciascuna voce di costo su ogni ora diretta lavorata nei quattro reparti diretti (centri di costo) in cui è stata suddivisa l’azienda presa ad esempio.

Consideriamo, ad esempio, il centro di costo Preparazione.

Un prodotto che venga lavorato per 1 ora in questo centro di costo (reparto):

- dà luogo ad un costo orario di € 18,40 per l’uso della manodopera diretta, di materiali di consumo, di forza motrice, di interessi passivi di funzionamento;

- deve assorbire un costo orario di € 7,42 per costi fissi di reparto sostenuti dall’azienda per dare una struttura efficiente al reparto dotandolo di manodopera indiretta, di impiegati tecnici, di macchine, ecc.;

- deve assorbire un costo orario di € 3,93 per costi fissi sostenuti dall’azienda per darsi una struttura amministrativa, commerciale e di immagine.

In totale, a livello di singolo centro di costo, avremo le seguenti incidenze orarie:

Tabella 2

Possiamo notare immediatamente che:

·       Le variazioni dell’incidenza oraria dei costi variabili sono poco rilevanti (da € 17,55 a € 19,41).
L’appiattimento retributivo conseguente alle tendenze sindacali degli ultimi anni ha ridotto le differenze salariali fra operai di elevata qualificazione ed operai comuni.
·       Le variazioni dell’incidenza oraria dei costi fissi sono molto pronunciate (da € 5,47 a € 30,41).
Lo sviluppo dell’incidenza oraria dei costi fissi di reparto e gli elevati tassi bancari sui mutui hanno fortemente differenziato i costi dei reparti tecnologicamente più avanzati rispetto a quelli dei reparti che non hanno usufruito di processi innovativi.
·       I costi fissi aziendali danno luogo ad incidenze orari uguali nei quattro reparti in quanto sono stati imputati usando come base di imputazione proprio il numero di ore dirette.
 

Scheda di costo del sistema del margine di contribuzione

La scheda di costo (tabella 03) che verrà presentata in questo paragrafo ridisegna il sistema dei centri di costo sviluppandolo secondo l’ottica del sistema del margine di contribuzione.


Tabella 3 del Prodotto A



  •  La sezione superiore è dedicata al costo delle materie prime  

  • La seconda sezione è dedicata al costo delle lavorazioni esterne, quando ci sono, viene       riportato il valore in assoluto.

  •  La terza parte è dedicata al costo della manodopera diretta, sia a costo variabile, sia a       costo fisso di reparto, sia a costo fisso di struttura.

Essa partendo dai tempi di lavorazione necessari ad effettuare le fasi previste dal ciclo, attribuisce a ciascun centro di costo:

  • Il costo fisso di reparto relativo ad una unità di prodotto. 

Tale costo comprende il costo della manodopera diretta, il costo dei materiali di consumo, il costo della forza motrice, il costo degli interessi passivi di funzionamento, e le lavorazioni esterne dove sono previste.

  •  Il costo fisso aziendale relativo ad una unità di prodotto. 

Tale costo comprende opportune quote del costo della manodopera indiretta, del costo degli impiegati tecnici, dell’ammortamento del fabbricato e delle macchine, ecc. che hanno contribuito a produrre una unità del prodotto considerato.

  •  Il costo variabile o costo diretto di una unità di prodotto.


Tale comprende una quota dei costi sostenuti in comune per la fabbricazione di tutti i prodotti dell’azienda: impiegati amministrativi e commerciali, spese postali, telefoniche e di cancelleria, spese per viaggi e di rappresentanza, ecc.


Nel caso della tabella 03 del prodotto A
                    Costo materie prime                                       € 1.025
                    Costo lavorazione esterna                              €    115
                    Costi variabili della manodopera diretta           €     336
                    Costi fissi di reparto                                        €     253
                    Costi fissi aziendali                                         €       72
                    Totale costo a pareggio                               €   1.801
 


Significato operativo del costo variabile
Poiché il costo delle materie prime, il costo della lavorazione esterna, il costo della manodopera diretta sono tutti costi variabili, possiamo raggrupparli.
 Perciò avremo:
                    Costo materie prime                                       € 1.025
                    Costo lavorazione esterna                              €    115
                    Costi variabili della manodopera diretta           €     336
                    Costo variabile o diretto del prodotto A       €   1.486
Il significato del costo variabile o diretto è il seguente:
·  Se produco 1 unità del prodotto A
Sostengo un costo di materie
Prime, manodopera diretta e
Spese generali variabili pari a €                      1 x 1.486 = 1.486 
·  Se produco 2 unità del prodotto A
Sostengo un costo di materie
Prime, manodopera diretta e
Spese generali variabili pari a €                      2 x 1.486 = 2.972
·     …………………………………..
·     …………………………………..
·    Se produco 1.000 unità del prodotto A
Sostengo un costo di materie
Prime, manodopera diretta e
Spese generali variabili pari a €            1.000 x 1.486 = 1.486.000
 

Ciò significa che l’entità del costo variabile è perfettamente nota, quale che sia il volume di produzione raggiunto dall’azienda.
In altri termini, per quanto riguarda i costi variabili del prodotto esaminato, la prima unità, la seconda unità, la millesima unità, e l’ultima unità prodotta costano tutte € 1.486
 

Significato operativo del costo fisso
Poiché il costo fisso di reparto e il costo fisso aziendale sono entrambi dei costi fissi, possiamo raggrupparli.
                                       Costo fisso di reparto                           € 253
                                       Costo fisso aziendale                            €   72
                                       Totale costi fissi                                 € 325

Questi costi sono stati ricavati sulla base dei costi orari dei quattro centri di costo i cui elementi economico/contabili sono riportati nella tabella 01. 

Ma questi costi orari sono esatti solo se:
·       Nel centro di costo preparazione si lavorano                      12.800 ore dirette/anno
·       Nel centro di costo officina si lavorano                               28.800 ore dirette/anno
·       Nel centro di costo lavorazioni speciali si lavorano            30.400 ore dirette/anno
·       Nel reparto montaggio si lavorano                                     48.000 ore dirette/anno

E’ infatti evidente che se le ore dirette lavorate in un anno superano quelle previste, i costi fissi si ripartiscono su un numero maggiore di ore dando luogo ad una incidenza oraria minore.
Ed è altrettanto evidente che se le ore dirette lavorate in un anno sono inferiori a quelle previste, i costi fissi si ripartiscono su un numero minore di ore dando luogo ad una incidenza oraria superiore.
Ne deriva che il significato del costo fisso che figura nella tabella 03 di costo del prodotto è più limitato di quello attribuibile al costo variabile.
In altri termini una unità del prodotto tabella 03 dà luogo a costi fissi pari a € 325 solo se l’esercizio considerato ogni centro di costo lavorerà esattamente le ore che sono state previste.
Ora avviene che quando si fa il preventivo di costo di un dato prodotto e si fanno le previsioni che fungono da supporto alla stesura della tabella 01, nessuno è in grado di sapere quale sarà il volume di produzione che caratterizzerà i singoli centri di costo dell’azienda nell’esercizio in corso.
Perciò i soli elementi noti di cui si dispone quando si deve fare il preventivo di costo del prodotto, sono:
·       Il costo variabile del prodotto
·       Il prezzo di vendita del prodotto
L’incidenza del costo fisso su ogni unità del prodotto, invece fabbricate nell’anno., potrà sapersi solo alla fine dell’esercizio, quando si conoscerà con precisione il numero di ore dirette lavorate nell’anno nei vari centri di costo e il numero di unità del prodotto fabbricate nell’anno.
 

La determinazione del margine di contribuzione
Un esempio chiarirà quanto detto.
La scheda di costo della tabella 03 del prodotto A fu attivata dall’inizio dell’esempio.
Sul mercato esisteva già un prodotto simile offerto dalla concorrenza, pertanto fu deciso di porre in vendita il prodotto al prezzo di € 1.950 per essere competitivi sul mercato.
(Tale prezzo dovrà poi aumentarsi per tenere conto delle provvigioni pagate ai rappresentanti, che sono diverse da mercato a mercato, tali provvigioni, ad esempio, potrebbero essere pari a 8% in Italia, al 12% in Francia, al 15% in Germania)
Avremo, pertanto:
                         Prezzo (escluse le provvigioni)                    1.950 €
                        Costo variabile                                           1.476 €
                        Margine di contribuzione                              474 €
Il significato operativo della suddetta relazione è questo:
·       Ogni volta che l’azienda produce una unità del prodotto A sostiene dei costi specifici per l’acquisto delle materie prime, per il pagamento delle retribuzioni della manodopera diretta, per il pagamento dei consumi di forza motrice, ecc.
Questi costi ammontano a 1.476 € e sono stati sostenuti proprio per produrre la suddetta unità del prodotto A.
·     Ogni qual volta che l’azienda vende una unità del prodotto A consegue un ricavo do 1.950 €.

Possiamo suddividere tale ricavo in due parti:
·       1.476 € vanno a coprire il costo variabile specificamente sostenuto per produrre una unità del prodotto;
·       474 € vengono utilizzate per coprire i costi fissi e dar luogo alla formazione dell’utile.
A questa parte del ricavo si dà il nome di margine di contribuzione (o reddito marginale o contributo al profitto).
Se siete interessati a condividere dei vostri quesiti in merito, scrivete le vostre richieste per ricevere gratuitamente informazioni.
 Se interessati potrete trovare i file in excel della tabella 01 e della tabella 03 semplicemente cliccando QUI



domenica 6 dicembre 2020

Ricetta Pizza Imbutita. (Dolce molto in uso nei pranzi ufficiali del nostro entroterra)

 di Carla Rigattieri


Preparare:

-  una pizza (torta) margherita alta e soffice 

- crema pasticcera classica

- alchermes Q.B.

- succo di limone e arancio Q.B.

- Zucchero a velo Q.B.

Dividere la Pizza in tre strati: Base, centro e cappello.

Disporre la base su un vassoio, bagnarla molto bene con alchermes,  succo di limone e arancio. Stendere sopra un abbondante strato di crema.

Adagiate poi sopra lo strato centrale e ripetere l'operazione con alchermes, succo di limone e arancio con tanto di crema.

Coprire tutto con il cappello e bagnarlo da sopra,

 sempre con alchermes, succo di limone  e  arancio. 

Carla Rigattieri

Una spolvetatina di zucchero a velo, lasciate riposare

 un paio di ore per far amalgamare gli ingredienti e potete servire. 

Una variante consigliata è la sostituzione del succo 

di limone e arancio con abbondante caffè.


A grande richiesta pubblichiamo anche la ricetta della Pizza Margherita e della Crema

Pizza (Pasta) Margherita:


6 uova 
300 grammi zucchero 
150 grammi fecola 
150 grammi  farina 
1 bustina di lievito per dolci 
Limone  
Anice  
In forno statico accendere  solo sotto  a 160°
Procedimento:
Sbattere  i rossi  con lo zucchero, unire  limone e anice, e,  mescolando insieme,  la  farina, la fecola e la bustina di lievito.  A parte,  montare gli  albumi e unire con delicatezza al composto.  Infornare a forno caldo a 160°

Per la Crema:
1 litro  di latte 
130 grammi farina 
250 grammi zucchero 
1 bustina vanillina 
8 tuorli d'uovo 
la scorza di un limone

Procedimento:
 
Portare il latte ad ebollizione con la scorza  del limone 
In  un altro recipiente mescolare gli 8 tuorli con  lo zucchero aiutandosi con una frusta. Aggiungere  la farina e la  vanillina. 
Quando  il  latte sarà pronto, unirlo al composto poco alla volta, continuando a mescolare con la frusta, portare nuovamente ad ebollizione senza mai smettere di amalgamare.   
A questo punto togliere dal fuoco e lasciare raffreddare la crema  mescolando  ancora per un po'.

domenica 22 novembre 2020

Orecchiette con Sugo di Broccoli

di Lele Roberti


Ricetta per 4 persone

  • g 400 orecchiette fresche
  • g 400 broccoli
  • g 40 burro
  • g 20 farina

  • 1/4 latte
  • n 1 acciuga
  • n 1 spicchio d'aglio
  • n 1 rametto di rosmarino
  • Parmigiano
Mettere in una padella il burro con un goccio di olio evo, l'acciuga, l'aglio, il rosmarino. Quando l'acciuga è sciolta e l'aglio è biondo, togliere il tutto, compreso il rosmarino. 
Aggiungere i  broccoli puliti e lavati e farli ammosciare. Aggiungere poco sale, peperoncino, poi aggiungere il latte, la farina e far bollire fin quando il composto non sarà ritirato al punto giusto per condire la pasta. 
Aggiungere formaggio grattugiato.  
Scolare le orecchiette e condire la pasta. 



mercoledì 18 novembre 2020

Nati e Abbandonati

 di Giovanni Pelosi

foto di Patrizia Renzoni

Il Prof. Giovanni Pelosi

Fu il mio primo anno di presidenza a Tavullia, dopo il trasferimento dalla Valcamonica, che conobbi una gentile e timida signorina: era la segretaria di quella piccola scuola media. Nel presentarci mi disse che si chiamava Esposta; rimasi un po’ interdetto, quel nome mi rimandò indietro nel tempo, ai sentieri non perduti della memoria, a quando mia madre un giorno mi disse che vicino alla nostra casa era arrivata una nuova famiglia e la signora si chiamava Esposta Germogli. Ripescato quel ricordo dissi alla non più giovane segretaria che il suo nome mi incuriosiva. Non poteva essere diversamente perché fin da adolescente ho sempre coltivato una particolare predilezione verso le parole in quanto luogo di pensiero, costruzione di mondi, incontri con l’universo, specie quelle che come un rompighiaccio spezzano il gelo dentro di noi, prendono alla gola, hanno a che fare con i sentimenti, si trasformano in poesia, in pensieri alati. Parole, pensieri che mi erano dolci come il miele per usare una espressione del profeta Ezechiele quando il Signore gli ordinò di mangiare un rotolo. Fu così che sotto la spinta di quella che i nostri padri latini chiamavano “curiositas”, presto comperai un piccolo quaderno diventato poi una rubrica che tutt’ora, malridotta e quasi lacera, conservo e vado a sfogliare e integrare con nuovi termini come “Resilienza, Sanificare, Entropia…”, ma non vi ho riportato quelli propri dei nostri giorni per far fronte al mortale Covid-19 “Recovery fund, Longform, Lockdown” che mi spaventano e, tra l’altro, hanno un suono sgradevole. Mantengono, invece, per me una grande attrazione ancora oggi termini, parole, concetti di carattere più spiccatamente sociale e politico come “Giustizia, Libertà, Pace, Tolleranza…” che hanno indirizzato il mio e il percorso di vita di molte persone. Hanno in sé una loro perenne attualità, una carica ideale ed etica che richiedono un nostro coinvolgimento e sono riassumibili in una piccola, solitaria, ma affascinante parola che è Utopia. Pur nella affievolita, ma non spenta convinzione di una sua realizzabilità, condivido il pensiero dello scrittore Eduardo Galeano: “Lei sta all’orizzonte. Mi avvicino di due passi, lei si allontana dieci passi più in là. Per quanto io cammini non la raggiungerò mai; quindi a che serve l’utopia? Serve a questo: a camminare.”

Dopo questa deviazione, apparente deviazione, , perché ha sempre a che fare con ciò che ci colpisce, che esige una reazione, un agire di nuovo, un cercare di comprendere, è tempo di riprendere l’iniziale via da cui queste riflessioni sono nate.

Dopo i primi confusi e frenetici giorni per orientarmi in quella nuova realtà, dopo i piacevoli colloqui con i docenti e tutto il personale, dopo aver “familiarizzato” con gli alunni, specie quelli poco inclini allo studio o alla disciplina, un mattino la segretaria, nel porgermi dei documenti da firmare, con un abbozzo di sorriso e ringraziandomi per la mia gentilezza, mi disse che non aveva mai conosciuto chi fossero i suoi genitori , che era stata lasciata in fasce al San Salvatore finché a 11 anni venne affidata ad una famiglia di Pesaro. Mi incuriosii ancora di più e da letture e da ricerche mi resi conto che la storia di Esposta rientrava in una vicenda comune a tanti altri neonati: si trattava del fenomeno dell’abbandono dell’infanzia. Ripensai, a Romolo e Remo, a Mosè; conobbero anche loro questa pratica già diffusa tra i Romani e altri popoli e l’avvento del cristianesimo non la limitò interessato come era al fine creativo del matrimonio e chiese e monasteri offrirono luoghi fondamentalmente sicuri dove lasciare gli esposti, chiamati anche “putti, gittarelli, trovatelli, bastardelli”. Venivano abbandonati non solo nelle strutture religiose ma un po’ ovunque: davanti alle edicole, sui gradini di chiese , nelle osterie, negli incroci di strada  ma anche nelle campagne, davanti alle case o vicino al forno dei contadini. Generalmente erano lasciati in ore notturne per evitare il riconoscimento di chi li abbandonava. Da figure caritatevoli venivano consegnati al brefotrofio o consegnati direttamente attraverso la ruota: una struttura a forma cilindrica attraverso la quale avveniva il deposito.

Nella nostra provincia erano presenti il brefotrofio di Urbino (1265), di Cagli (1549), di Pesaro (1620), di Fossombrone (1720) e di Fano che viene fatto risalire più indietro di tutti: due atti del 997 riportano la presenza di una strada denominata “della Rota”. La sede definitiva sarà l’Ospizio di S. Michele (foto)

Ospizio di San Michele 

e sulla destra dell’Arco di Augusto una pietra contiene le scritte “Eleemosynis expositorum” (foto).


(Continua prossimamente con un'Altra Storia...)


domenica 15 novembre 2020

La Cultura del dato è il punto da cui partire

 di Pierluigi Venturi

Nel precedente articolo del 18 ottobre scorso avevo preannunciato un percorso che, partendo da alcuni elementi fondamentali del fare impresa, consentisse alle nostre PMI di operare azioni di recupero relativamente al gap di ritardo culturale accumulato in questi ultimi anni nei confronti di imprese di altri Paesi e alle nostre stesse potenzialità.
Il punto di partenza non può che essere  la cultura del dato

Il ritardo  che molte imprese italiane hanno accumulato rispetto a questo elemento essenziale del fare impresa è piuttosto importante. Non si tratta di un peccato veniale, in quanto l’attuale contesto competitivo concede sempre meno possibilità di operare con dati approssimativi  e, inoltre, un ritardo su questo punto è sinonimo di cattive interpretazione degli altri aspetti del fare impresa perché non misurati correttamente. Senza considerare l’effetto sulla necessità di scelte strategiche consapevoli e tempestive che lo stesso contesto competitivo richiede.
L’approccio di molti imprenditori di ditte artigiane e piccole imprese fino a pochi anni fa, era ancora concentrato sulla parte operativa del lavoro e si fidava dell’esperienza facendo calcoli molto approssimativi e con scarsa condivisione delle informazioni con il resto della struttura. In altre parole, non avevano la cultura del dato! Tutto questo produceva un grosso dispendio di risorse. Da qualche tempo, le marginalità, per molte micro imprese, sono diminuite in alcuni settori tradizionali  e magari qualche attenzione in più la si può intravedere. Tuttavia non è facile  inserire una cultura del dato in una realtà non abituata a farlo (nel prossimo articolo fornirò alcuni suggerimenti per poterlo fare). 
Prima di entrare nel merito, voglio chiarire da subito  tre punti chiave:
1. la cultura del dato  è ciò che  guida l’azienda verso la crescita, indipendentemente dalle sue dimensioni: sia che si parli di ditte artigiane, micro imprese o multinazionali;
2. i gestionali e gli strumenti di condivisione delle informazione utilizzati dall’impresa, da soli, non certificano la presenza di una cultura del dato. Occorre che tali informazioni e le metriche utilizzate dall’impresa per monitorare gli andamenti producano “discussioni” interne, altrimenti non si trasformano in cultura;  
3. creare un sistema interno all’impresa orientato al dato (sia quantitativo che qualitativo) è il primo passo per per poter agire in modo strategico. 
Avere dati attendibili ed in tempo reale è già un vantaggio competitivo per l’impresa che ci riesce rispetto a quelle che devono attendere elaborazioni contorte e non sempre affidabili. Ad oggi è più una questione culturale che tecnologica. Ovviamente la cultura del dato non è legata solo alla tempestività nella fornitura, ma anche ad un sistema valoriale collegato alla stessa fatto di trasparenza, responsabilità, condivisione, ma soprattutto, consapevolezza che i dati siano utili per eventuali ripensamenti della strategia. Il presidente di Infosys, colosso mondiale dell’informatica di origine Indiana, ripete spesso ai suoi collaboratori queste parole: "Di Dio ci fidiamo, ma  tutti gli altri devono portarci  dati".  

Al fine di dare concretezza alla discussione, di seguito propongo un questionario preliminare per misurare il livello di cultura del dato presente all’interno delle nostre imprese. Il questionario prevede, in alcuni casi, domande multiple all’interno della stessa riga. Nel caso in cui una risposta dovesse risultare affermativa e l’altra negativa, dovremmo indicare “NO” come risposta di  riga in quanto il “SI” lo utilizzeremo  solo nel caso di tutte risposte positive. Si tratta di un banale  esercizio al fine di comprendere il punto di partenza delle nostre imprese rispetto alla cultura del dato  e su quali  aspetti occorre che lavorino maggiormente. Evidentemente l’elenco delle domande può essere allungato e/o adeguato al singolo caso. 

Questionario preliminare per verificare la cultura del dato

1

Hai consapevolezza di come impieghi il tuo tempo? Sapresti fornirmi una prova per singola attività in 5 minuti?

SI

NO

2

Hai un sistema di programmazione delle attività che indichi chiaramente ad ogni addetto dell’azienda cosa deve fare ogni giorno? Il programma ha una visibilità mensile? Ci sono responsabili per ogni dipartimento che controllano l’andamento dei programmi e risolvono i relativi problemi? 

SI

NO

3

L’azienda ha sviluppato una cultura al feedback? Vengono forniti regolarmente i dati consuntivi delle attività giornaliere da parte di tutti?

SI

NO

4

La tipologia di software utilizzato per la programmazione delle attività consente la gestione delle informazioni qualitative, oltre che quelle quantitative e per singolo progetto? Tali informazioni sono condivise e reperibili in 5 minuti?

SI

NO

5

Esistono le distinte base? Sono fruibili da tutti i dipartimenti aziendali oltre che  produzione/ufficio tecnico e approvvigionamenti? Sono disponibili in forma da poter valutare in 10 minuti l’impatto di un’eventuale variazione di prezzo o di quantità di alcuni componenti?

SI

NO

6

Hai consapevolezza della marginalità per singolo pezzo/servizio prodotto?

I dati disponibili sono in un formato che modificando alcune componenti che determinano il margine di dettaglio (prezzi, quantità ed altro) puoi calcolare l’impatto sul budget e sui preventivi in 10 minuti?

SI

NO

7

Nella tua impresa è stato formalizzato un criterio per l’elaborazione dei preventivi? E’ chiaro chi siano le persone autorizzate a farli? Riesci ad evaderli nella stessa giornata della richiesta?

SI

NO

8

Conosci i numeri del tuo mercato di riferimento ( chi sono i competitors, come operano, la loro marginalità ed i loro volumi)?

SI

NO

9

Esiste un sistema di monitoraggio? Il controllo andamentale rispetto al budget viene fatto giornalmente, settimanalmente, mensilmente ed annualmente?

SI

NO

10

Esiste un budget per singola attività/risorsa/fatturato/segmento di mercato/cliente?

SI

NO

11

Hai consapevolezza dei fabbisogni finanziari che il budget di attività precedente comporta? Hai una visione finanziaria mensilizzata per almeno un anno e/o comunque 6 mesi per mettere in atto azioni qualora dovessi affrontare  uno sbilancio?

SI

NO

12

Hai a disposizione degli indicatori/indici sintetici in modo da poter verificare immediatamente se stai procedendo nella giusta direzione? Sono condivisi con le persone interessate (vale a dire per settore di riferimento)?

SI

NO

13

La circolazioni delle informazioni relativamente ai budget è diffusa in tutti i settori aziendali? Esistono comunicazioni/informazioni formalizzate  trasversali tra settori giornalmente?

SI

NO

14

Esiste un vero sistema qualità interno? Fornisce con regolarità dati sulle non conformità rilevate?

SI

NO

15

E’ stato introdotto il modello delle 8D per  la risoluzione dei problemi? L’azienda usa il modello delle 5S al fine di ridurre gli sprechi e i costi?

SI

NO

16

E’ stata introdotta una cultura/gestione del rischio con lo sviluppo di scenari possibili?  Si usa la SWOT Analisys? 

SI

NO



La cultura del dato va ben oltre le 16 domande proposte nel questionario, in quanto ognuna di esse potrebbe prestarsi ad altre 16 domande e così via. Inoltre, una volta risposto e chiarito l’esistenza o meno di un determinato aspetto, occorre precisare il “come” viene gestito. Componente non secondario se l’obiettivo prefissato è quello di realizzare una cultura del dato.   Si tratta di comprendere l’attitudine  delle persone che operano in azienda e di come si pongono rispetto alla necessità di misurare ogni aspetto. Occorre una consapevolezza diffusa  che il rilevare dati ed informazioni, rappresenta la conditio sine qua non per elaborare una strategia efficace e per poterla aggiornare, correggere o cambiare in corso d’opera. In definitiva, aver risposto tutti “SI” al questionario non ci indica che siamo a posto relativamente alla cultura del dato, in quanto l’indagine è appena cominciata. L’obiettivo del questionario è quello di stimolare ulteriori domande e verificare dove siamo carenti. Qualora avessimo riportato  dei “NO” avremmo già materiale su cui lavorare. Sicuramente dovremmo  anche ponderare le singole risposte: un “NO” alla prima domanda non può avere lo stesso peso di un “NO” all’ultima. 
La cultura del dato è il punto di partenza perchè trasversale ad ogni aspetto aziendale. Ne segue che anche gli altri “elementi” che io considero fondamentali ai fini di una crescita culturale (concetto di Vantaggio competitivo, innovazione e formazione continua) sono soggetti a valutazioni sia quantitative che qualitative. Un ruolo importante alla diffusione della cultura del dato è rappresentato dall’individuazione degli indicatori/indici sintetici abitualmente utilizzati per rappresentare gli andamenti. Lo vedremo nel prossimo articolo, tuttavia posso anticipare che occorre procedere per gradi, vale a dire che ci saranno degli indicatori che ogni persona in azienda deve conoscere, altri faranno riferimento solo al settore di competenza, altri ancora saranno appannaggio solo  della prima linea dirigenziale  e dell’imprenditore. Avere troppi indicatori a volte fa perdere di vista il quadro d’insieme. La cultura del dato la si fa attraverso indicatori ed indici che riescono a produrre discussioni sui singoli elementi che li compongono. L’approccio sistemico in questi casi aiuta. La consapevolezza che un’azienda sia un insieme di componenti in relazioni tra loro, porta a ragionare sulle singole componenti e sulle relative relazioni. Mano a mano che entriamo nel dettaglio comprendiamo che ogni componente, a sua volta, ha dei sottosistemi con altre componenti e altre relazioni. Occorre individuare la coerenza tra gli aspetti di dettaglio con gli aspetti generali. Inoltre, è necessario comprendere  che, l’oggetto della misurazione non sono solo le singole componenti, ma anche  le relazioni che le tengono insieme e come queste interagiscono con il sistema esterno.  In un contesto di vantaggi competitivi transitori, come quello attuale, avere un cultura del dato diffusa in azienda è fondamentale, per almeno due ordini di motivi: primo, possiamo accorgerci tempestivamente della perdita di uno dei nostri vantaggi competitivi, cogliendo i primi segnali; secondo, la ricerca costante di nuovi vantaggi competitivi ci porta a misurare le varie opzioni per scegliere quelle più convenienti considerato il momento che sta attraversando l’azienda. Non possiamo dimenticare, inoltre, che la   cultura del dato porta un maggior numero di persone interne all’impresa a suggerire soluzioni migliorative rispetto a quanto si stia facendo; innescando, di conseguenza. un circolo virtuoso verso il miglioramento continuo.

However, not everything that can be counted counts, and not everything that counts can be counted”. La  citazione appena riportata, per un lungo periodo, è stata erroneamente attribuita ad Albert Einstein. In realtà si tratta di una riflessione da parte del sociologo americano Cameron per sottolineare la difficoltà di misurare alcuni comportamenti umani che risultano fondamentali nel dare valore alle cose (William B. Cameron, "Informal Sociology: A Casual Introduction to Sociological Thinking").

La citazione se mal interpretata presta il fianco a comportamenti contrari al tentativo di rafforzare  la cultura del dato all’interno di un’organizzazione. Molti potrebbero pensare che siccome è difficile dare il giusto valore ad alcune aspetti, tanto vale non sprecare tempo nel tentativo di dargliene.  
L’imprenditore non può farsi guidare dal semplice intuito e dalla sua ispirazione. Credo che tutti quanti noi possiamo essere d’accordo sul fatto che le   cose da fare per l’impresa siano quelle che portano valore diretto e/o indiretto, sia che queste possano essere facilmente contate oppure che ci si debba affidare a delle stime perché più aleatorie. Detto questo, come possiamo stabilire il valore delle cose e concentrarci su quelle più meritevoli di attenzione, se non miglioriamo il nostro approccio ai dati? 
La sperimentazione si nutre di dati e ne produce a sua volta per indicare la direzione, altrimenti è solo uno spreco di risorse aziendali. La formazione per essere efficace  si deve nutrire anch’essa di dati altrimenti sarebbe solo un modo diverso per impiegare del tempo. L’innovazione non può esistere senza un confronto con i  dati. I vantaggi competitivi se non misurati sono  semplici convinzioni dell’imprenditore e se non monitorati  rischiano di trasformarsi in illusioni, considerata la loro transitorietà. La strategia aziendale viene monitorata e corretta attraverso i dati, compresi quelli che attendono di essere confermati dalle diverse sperimentazioni.

L’ ossessione positiva del dato è ciò che spinge al miglioramento ma se non diventa cultura dell’impresa resta solo un’ossessione. Per avere un engagement positivo di tutti gli attori aziendali a sviluppare una cultura del dato occorre  utilizzare metriche che fanno discutere, come ho già detto in precedenza. Del resto la cultura nasce proprio dallo studio, dalla sperimentazione, dal ragionamento, dal confronto e dalla discussione su un determinato argomento. Indicatori che non fanno discutere portano un modesto risultato in termini culturali.  Possono far parte del bagaglio di conoscenze e di competenze personali dei singoli, ma per trasformarsi in risorsa aziendale devono essere condivisi e produrre discussioni. 

Nel prossimo articolo fornirò alcuni suggerimenti pratici per far crescere o riabilitare la cultura del dato all’interno di un organizzazione.
Grazie per l’attenzione.

domenica 1 novembre 2020

Generalità sul Sistema del Margine di Contribuzione

 di Luciano Giambartolomei

Riepilogo dei collegamenti esistenti fra scopi di un sistema di costi e requisiti che esso deve possedere per conseguirli



Il primo scopo di un sistema di costi è quello di rappresentare la base per la fissazione di equi prezzi di vendita, cioè prezzi cui non sia imposto di assorbire quote di spese generali anormalmente elevate o anormalmente basse.

Per rispondere a questo scopo il sistema deve essere equo.

Un sistema di costi è equo quando imputa a ciascun prodotto in MODO DIRETTO i componenti di costo ad esso chiaramente attribuibili, limitando al minimo i componenti di costo imputati in MODO INDIRETTO.

Il secondo scopo di un sistema di costi è quello di costituire il presupposto di un analitico preventivi e consuntivi, determinando le aree aziendali in cui è necessario intervenire, suggerendo i modi in cui intervenire per correggere la gestione.

 Per rispondere a questo scopo il sistema deve essere analitico.

Un sistema di costi è analitico quando disaggrega i vari costi in base all’area aziendale in cui sorgono e il responsabile gerarchico che ne risponde; imputandoli successivamente a ciascun prodotto nel più dettagliato possibile.

Il terzo scopo di un sistema di costi è quello di fungere da supporto ad una operativa politica aziendale che si proponga di pervenire a decisioni razionali prevedendo in precisi termini quantitativi le conseguenze economiche delle varie possibili alternative. Per rispondere a questo scopo il sistema deve essere operativo.
Un sistema di costi operativo quando “ discriminando fra costi variabili e costi fissi “ permette di operare razionali scelte di politica aziendale.

Il sistema del margine di contribuzione

Il sistema del margine di contribuzione valorizza tutto il potenziale di rottura insito nelle critiche mosse ai sistemi che calcolano “il costo complessivo “.
Esso da contorni meglio definiti alle decisioni dell’imprenditore individuando le vere coordinate del problema.
Ottiene ciò suddividendo i costi variabili e fissi in funzione del loro comportamento al variare del volume di attività dell’azienda.
Dopo aver proceduto a tale suddivisione il sistema del margine di contribuzione si sottrae all’illusione di conoscere il “costo complessivo” dei prodotti e più saggiamente si accontenta di conoscere l’unica cosa che è data da conoscere: il costo variabile.

La relazione analitica è:
   Costo delle materie prime
+ Costo della manodopera diretta
+ Quota delle spese generali variabili
________________________________
= Costo variabile

La somma dei tre addendi considerati non costituisce il “costo complessivo” in quanto non comprende alcuna aliquota di costi fissi.
Si avrà, perciò:
  Prezzo di vendita del prodotto
- Costo variabile del prodotto
_________________________________
= Margine di contribuzione

Il margine di contribuzione, quindi, non rappresenta l’utile ma un elemento contabile che comprende le quote di spese fisse e di utile conseguite vendendo una unità del prodotto considerato.
Più precisamente, in sede teorica al margine di contribuzione si possono attribuire due ruoli:
  • Nel periodo che va dall’inizio dell’esercizio fino al momento in cui l’azienda raggiunge il Punto di Pareggio, i margini di contribuzione dei prodotti venduti vengono utilizzati per recuperare i costi fissi dell’intero esercizio. 

 

  • Nel periodo che va dal momento in cui l’azienda raggiunge il Punto di Pareggio alla fine dell’esercizio, i margini di contribuzione dei prodotti venduti vengono a costituire l’utile. 

 Il sistema del margine di contribuzione rappresenta un modello economico completo dell’attività aziendale

Il sistema del margine di contribuzione è un vero modello economico del comportamento dei costi aziendali in quanto si sforza di individuare non solo dove si formano i costi ma anche come essi si comportano al variare del volume di produzione.

Ne deriva la sua capacità di calibrare le risposte alle domande che di volta in volta si pongono gli imprenditori permettendo ad essi di predeterminare in precisi termini quantitativi le conseguenze economiche delle varie alternative gestionali.
Proprio per il fatto di fungere da attendibile supporto alle decisioni dell’imprenditore il sistema del margine di contribuzione viene presentato come contabilità per gli imprenditori.
(Pur rimandando alle prossime pubblicazioni, ricordiamo che il Punto di Pareggio è il volume di produzione che un’azienda deve raggiungere per coprire tutti i suoi costi, senza avere né un Euro di utile né un Euro di perdita).
Se siete interessati a condividere dei vostri quesiti in merito, scrivete le vostre richieste per ricevere gratuitamente informazioni.


La prossima pubblicazione: “Applicazione del sistema del margine di contribuzione” ci rivediamo fra quindici giorni.




domenica 18 ottobre 2020

La Cultura è l’asset più importante per un’impresa

di Pierluigi Venturi 

Il vocabolario Treccani definisce la cultura in questo modo: ”l’insieme delle cognizioni intellettuali che, acquisite attraverso lo studio, la lettura, l’esperienza, l’influenza dell’ambiente e rielaborate in modo soggettivo e autonomo diventano elemento costitutivo della personalità, contribuendo ad arricchire lo spirito, a sviluppare o migliorare le facoltà individuali, specialmente la capacità di giudizio”. 


Se trasferiamo un tale significato nel quotidiano del fare impresa comprendiamo che la cultura della stessa non può essere considerata come semplice sommatoria delle culture dell’imprenditore e di tutti i soggetti che ruotano internamente ed esternamente all'impresa. Occorre, anche, considerare come la stessa cultura si arricchisca, quotidianamente, attraverso lo scambio delle esperienze dei singoli e delle attività condivise. Infatti per diventare un vero asset aziendale ha necessità di essere diffusa tra le persone che operano per e con l'impresa. Lo studio, la formazione, la sperimentazione, la valutazione degli errori, l’elaborazione e la rielaborazione dei progetti, l’innovazione, l’attenzione al cambiamento, l’utilizzo degli strumenti di gestione ed altro, sono attività che, se svolte in maniera efficace, rappresentano i driver della crescita culturale. L’ambiente esterno influenza notevolmente la cultura della singola impresa perché gli stimoli ad alzare l’asticella dipendono molto dal livello di competizione che deve affrontare, quanto sia condizionate la conoscenza delle nuove tecnologie presenti sul mercato, da come i gusti dei consumatori possano cambiare e, ancor più in generale, da come possano cambiare le relazioni che influenzano il suo quotidiano. 

 

Se analizziamo, dunque, la storia di qualsiasi azienda e proviamo ad individuare un significante che colleghi il suo passato con il presente ed il futuro della stessa, ci accorgiamo che il fare impresa in qualche modo si sostanzia nel tentativo di interpretare il cambiamento. Unica vera costante nel tempo di qualsiasi organizzazione, in quanto la stabilità rappresenta l’eccezione. Interpretare il cambiamento, tuttavia, non significa fare gli indovini, ma comprendere come i fondamentali che stanno alla base di qualsiasi impresa debbano essere costantemente risignificati ed adeguati alle mutazioni del contesto competitivo. Ogni imprenditore/manager dovrebbe comprendere che il tentativo di restare fermo mentre attorno a lui tutto si sta muovendo, non gli risparmierà le noie del cambiamento, ma probabilmente gli impedirà di ottenerne i relativi vantaggi. Smettere di studiare, di formarsi, di sperimentare, di ripensare alle strategie, di analizzare gli errori, di cercare nuovi vantaggi competitivi, in altre parole, smettere di arricchire la cultura della propria impresa e di adagiarsi alla routine, significa non solo perdere opportunità economiche, ma soprattutto accumulare un gap di ritardo rispetto al contesto competitivo. L’imprenditore/manager deve essere consapevole che, prima o poi, il mercato lo costringerà ad affrontare tale ritardo ed avere un bel conto in banca potrebbe non bastare per risolvere il problema.  Sappiamo come i soldi possano aiutare l’avvio di una crescita economica, rappresentano in molti casi il punto di partenza, ma se l’impresa non cresce dal punto di vista culturale, potrebbero non essere mai sufficienti. Anzi, in molti casi il problema nasce proprio dal gap che si crea tra la crescita economica e quella culturale. Un differenziale che potrebbe mettere l’impresa a rischio di permanenza sul mercato, se non colmato tempestivamente.

Per fare un esempio concreto di quanto sto dicendo, vi invito a riflettere sul dibattito relativo alla digital transformation che da diverso tempo trova spazio su giornali e in alcune trasmissioni televisive.  In molti evidenziano i ritardi del nostro Paese su questo tema e quanto l’investimento nelle nuove tecnologie sia un passaggio obbligato per recuperare tali ritardi. Tuttavia raramente si entra nel merito della questione che è molto più complessa da come viene solitamente rappresentata. A tal proposito vi segnalo una lettura: il report Istat 2019 che alla pagina 59 riporta la sintesi di uno studio dello stesso Ente statistico del 2015. Studio operato per comprendere le ragioni della cronica minore produttività delle nostre imprese rispetto a quelle di altri Paesi europei.

Il ragionamento relativo alla produttività ruota attorno a due concetti fondamentali: il capitale fisico ed il capitale umano.

Il capitale umano viene misurato a partire dai suoi due elementi portanti: il livello di istruzione (in termini di anni di studio) e la job tenure (in termini di anni di permanenza nell’impresa). La dotazione di capitale fisico di una impresa è invece misurata dal valore delle immobilizzazioni materiali e immateriali per addetto.

Lo studio Istat sopra citato ha evidenziato, su imprese con almeno 10 dipendenti, un legame positivo tra capitale fisico, produttività e dimensioni aziendali. Questo aspetto non sorprende più di tanto, anche se i valori di produttività delle imprese con una maggiore intensità di capitale sono risultati quasi doppi rispetto alle imprese con un’intensità di capitale inferiore. Se invece si passa a considerare il capitale umano, i dati che sono emersi dallo stesso studio sono quasi imbarazzanti: il 77,6% delle imprese esaminate (quelle con almeno 10 dipendenti) possiede livelli bassi di capitale umano. La media del personale aveva appena terminato la scuola dell’obbligo e solo in parte raggiungeva un’anzianità aziendale vicina ai 10 anni, tale da compensare in qualche modo il minore livello di istruzione. La cosa era abbastanza omogenea su tutto il territorio nazionale: 75,9% per le imprese del Nord-Est contro il 79,9% di quelle meridionali. Inoltre, è abbastanza preoccupante il fatto che il fenomeno riguardi il 68,1% degli addetti che producono il 49,7% del valore aggiunto complessivo delle aziende con almeno 10 dipendenti e, allo stesso tempo, si estenda all’intero sistema produttivo, rappresentando circa un terzo del valore aggiunto e degli addetti.

Questi dati, al di là che possa non piacere l’espressione capitale umano, sono molto preoccupanti e dimostrano come il gap di produttività sia legato al ritardo culturale di molte imprese italiane. A rincarare la dose sulla questione ci sono anche le previsioni OCSE del maggio 2019, quindi non influenzate minimamente dal Covid-19 e non legate solo al nostro Paese, che prevedono, a livello dei 36 Paesi facenti parte dell’organizzazione, una difficoltà da parte delle PMI di attirare le competenze che servono per gestire questa benedetta digital Transformation. Competenze che sono scarse sul mercato e che preferiscono organizzazioni più Grandi e più strutturate (si veda l’articolo di Stefano Casini su INNOVATION POST).

Tradotto nel concreto significa che il nostro Paese avrà un percorso molto più difficile, indipendentemente dal Covid-19, verso la digital transformation e verso tutti i cambiamenti che la 4° rivoluzione industriale sta proponendo. Non sarà sufficiente inserire la nuova tecnologia per recuperare i ritardi accumulati; servirà un progetto complessivo! Infatti, i contributi economici che dovrebbero arrivare dall’Europa per favorire proprio la digital transformation e più in generale la ripresa economica a seguito dello shock causato dal Covid-19, potrebbero non essere sufficienti a far recuperare il gap di produttività delle nostre imprese, se non dovessero essere accompagnati da investimenti in termini culturali. Quest’ultimi investimenti dovranno essere operati dagli imprenditori/manager delle singole imprese, perché solo loro possono conoscere la base culturale della propria impresa. Inoltre, dovranno essere realizzati indipendentemente dall’arrivo di finanziamenti, altrimenti molte nostre imprese rischiano di uscire dal mercato. La mia preoccupazione nasce soprattutto dalla considerazione che, molto probabilmente, l’asticella della competizione globale si alzerà e sarà molto più focalizzata sulla ricerca di nuovi vantaggi competitivi rispetto a quanto molte imprese non stessero già facendo. Il Covid-19 sotto certo aspetti è già, ma lo sarà ancora di più in futuro, un acceleratore di alcuni processi. Evidentemente chi è impegnato a risolvere i nuovi problemi amplificati dalle vecchie abitudini perderà terreno.

Pierluigi Venturi


Che fare? Come si può recuperare il gap di ritardo culturale accumulato dalla maggioranza delle nostre PMI?  

Ne parleremo nei prossimi articoli, ma nel frattempo vi posso anticipare lo schema che ho intenzione di seguire:

1.    Non farò la lista della spesa delle cose che servirebbero da parte della Politica e delle diverse Istituzioni Nazionali o Europee. Mi limiterò ad invitare l’imprenditore/manager a sospendere la fase del lamento e a focalizzarsi sulle cose che servono alla sua impresa per farla crescere.

2.    Il percorso di crescita culturale non parte dalla formulazione di una nuova Strategia, in quanto quest’ultima è uno strumento di gestione condizionato dalla cultura dell’imprenditore. Ne segue che il percorso di crescita culturale parte dall’analisi del fare quotidiano che dovrà essere orientato a quegli elementi così ben descritti dalla definizione di cultura operata dal vocabolario Treccani, al fine di consentire una crescita dell’imprenditore e dei suoi collaboratori e quindi, raggiungere l’obiettivo di una nuova Strategia.

3.    La crescita culturale passa, a mio avviso, attraverso quattro “elementi”, strettamente collegati tra loro che, considero fondamentali, per elaborare una strategia aziendale capace di far fronte ai cambiamenti continui del contesto competitivo. I quattro elementi sono: la cultura del dato; il concetto di vantaggio competitivo; l’innovazione e la formazione continua. Tutto il resto è un di cui che può essere compreso all’interno di uno dei quattro elementi principali. Ovviamente la strategia non può essere considerata come semplice sommatoria dei quattro elementi sopra citati, in quanto presenta proprie peculiarità ma senza una crescita in termini culturali dei quattro “elementi” evidenziati non si ha la possibilità di formulare strategie più qualitative.

 

In definitiva, la cultura, per un'impresa, è l’asset più importante perché rappresenta l’investimento con il minor rischio di obsolescenza e se alimentata costantemente consente all’imprenditore e ai suoi collaboratori di interpretare meglio i cambiamenti che avvengono continuamente sul mercato. 

A me piace usare spesso l’espressione: “il futuro è già iniziato”. E’ un concetto su cui insisto molto perché ciò che farà qualsiasi imprenditore domani è figlio della sua Vision, di come abbia deciso di declinarla dal punto di vista strategico e tattico, ma, soprattutto, sarà il frutto di quanto sia diffusa nella sua azienda la cultura d’impresa che ha ispirato il suo pensare.