di Pierluigi Venturi
Il
vocabolario Treccani definisce la cultura in questo modo: ”l’insieme delle
cognizioni intellettuali che, acquisite attraverso lo studio, la lettura,
l’esperienza, l’influenza dell’ambiente e rielaborate in modo soggettivo e
autonomo diventano elemento costitutivo della personalità, contribuendo ad
arricchire lo spirito, a sviluppare o migliorare le facoltà individuali,
specialmente la capacità di giudizio”.
Se
trasferiamo un tale significato nel quotidiano del fare
impresa comprendiamo che la cultura della stessa non può essere
considerata come semplice sommatoria delle
culture dell’imprenditore e di tutti i soggetti che ruotano internamente
ed esternamente all'impresa. Occorre, anche, considerare come la stessa
cultura si arricchisca, quotidianamente, attraverso lo scambio delle
esperienze dei singoli e delle attività condivise. Infatti per diventare un
vero asset aziendale ha necessità di essere diffusa tra le persone che operano
per e con l'impresa. Lo studio, la formazione, la sperimentazione, la
valutazione degli errori, l’elaborazione e la rielaborazione dei progetti,
l’innovazione, l’attenzione al cambiamento, l’utilizzo degli strumenti di
gestione ed altro, sono attività che, se svolte in maniera efficace,
rappresentano i driver della crescita culturale. L’ambiente esterno influenza
notevolmente la cultura della singola impresa perché gli stimoli ad alzare
l’asticella dipendono molto dal livello di competizione che deve
affrontare, quanto sia condizionate la conoscenza delle nuove tecnologie
presenti sul mercato, da come i gusti dei consumatori possano cambiare e,
ancor più in generale, da come possano cambiare le relazioni che
influenzano il suo quotidiano.
Se
analizziamo, dunque, la storia di qualsiasi azienda e proviamo ad individuare
un significante che colleghi il suo passato con il presente ed il futuro della
stessa, ci accorgiamo che il fare impresa in qualche modo si sostanzia nel
tentativo di interpretare il cambiamento. Unica vera costante nel tempo di
qualsiasi organizzazione, in quanto la stabilità rappresenta l’eccezione.
Interpretare il cambiamento, tuttavia, non significa fare gli indovini, ma
comprendere come i fondamentali che stanno alla base di qualsiasi impresa
debbano essere costantemente risignificati ed adeguati alle mutazioni del
contesto competitivo. Ogni imprenditore/manager dovrebbe comprendere che
il tentativo di restare fermo mentre attorno a lui tutto si sta muovendo,
non gli risparmierà le noie del cambiamento, ma probabilmente gli impedirà
di ottenerne i relativi vantaggi. Smettere di studiare, di formarsi, di
sperimentare, di ripensare alle strategie, di analizzare gli errori, di cercare
nuovi vantaggi competitivi, in altre parole, smettere di arricchire la cultura
della propria impresa e di adagiarsi alla routine, significa non solo
perdere opportunità economiche, ma soprattutto accumulare un gap di
ritardo rispetto al contesto competitivo. L’imprenditore/manager deve
essere consapevole che, prima o poi, il mercato lo costringerà ad
affrontare tale ritardo ed avere un bel conto in banca potrebbe non
bastare per risolvere il problema. Sappiamo come i soldi possano
aiutare l’avvio di una crescita economica, rappresentano in molti casi il punto
di partenza, ma se l’impresa non cresce dal punto di vista culturale,
potrebbero non essere mai sufficienti. Anzi, in molti casi il problema
nasce proprio dal gap che si crea tra la crescita economica e quella culturale.
Un differenziale che potrebbe mettere l’impresa a rischio di permanenza sul
mercato, se non colmato tempestivamente.
Per
fare un esempio concreto di quanto sto dicendo, vi invito a riflettere sul
dibattito relativo alla digital transformation che da diverso tempo trova
spazio su giornali e in alcune trasmissioni televisive. In molti
evidenziano i ritardi del nostro Paese su questo tema e quanto
l’investimento nelle nuove tecnologie sia un passaggio obbligato per recuperare
tali ritardi. Tuttavia raramente si entra nel merito della questione che è
molto più complessa da come viene solitamente rappresentata. A tal proposito vi
segnalo una lettura: il report Istat 2019 che alla pagina 59 riporta
la sintesi di uno studio dello stesso Ente statistico del 2015. Studio
operato per comprendere le ragioni della cronica minore produttività delle
nostre imprese rispetto a quelle di altri Paesi europei.
Il
ragionamento relativo alla produttività ruota attorno a due concetti
fondamentali: il capitale fisico ed il capitale umano.
Il
capitale umano viene misurato a partire dai suoi due elementi portanti: il
livello di istruzione (in termini di anni di studio) e la job tenure (in
termini di anni di permanenza nell’impresa). La dotazione di capitale fisico di
una impresa è invece misurata dal valore delle immobilizzazioni materiali e
immateriali per addetto.
Lo
studio Istat sopra citato ha evidenziato, su imprese con almeno 10 dipendenti,
un legame positivo tra capitale fisico, produttività e dimensioni aziendali.
Questo aspetto non sorprende più di tanto, anche se i valori di
produttività delle imprese con una maggiore intensità di capitale sono
risultati quasi doppi rispetto alle imprese con un’intensità di capitale
inferiore. Se invece si passa a considerare il capitale umano, i dati che
sono emersi dallo stesso studio sono quasi imbarazzanti: il 77,6% delle
imprese esaminate (quelle con almeno 10 dipendenti) possiede livelli bassi di
capitale umano. La media del personale aveva appena terminato la scuola
dell’obbligo e solo in parte raggiungeva un’anzianità aziendale vicina ai 10
anni, tale da compensare in qualche modo il minore livello di istruzione.
La cosa era abbastanza omogenea su tutto il territorio nazionale: 75,9% per le
imprese del Nord-Est contro il 79,9% di quelle meridionali. Inoltre, è
abbastanza preoccupante il fatto che il fenomeno riguardi il 68,1%
degli addetti che producono il 49,7% del valore aggiunto complessivo delle
aziende con almeno 10 dipendenti e, allo stesso tempo, si estenda all’intero sistema
produttivo, rappresentando circa un terzo del valore aggiunto e degli
addetti.
Questi
dati, al di là che possa non
piacere l’espressione capitale umano, sono molto preoccupanti e dimostrano come
il gap di produttività sia legato al ritardo culturale di molte imprese
italiane. A rincarare la dose sulla questione ci sono anche le previsioni
OCSE del maggio 2019, quindi non influenzate minimamente dal Covid-19 e
non legate solo al nostro Paese, che prevedono, a livello dei 36 Paesi facenti
parte dell’organizzazione, una difficoltà da parte delle PMI di attirare le
competenze che servono per gestire questa benedetta digital Transformation.
Competenze che sono scarse sul mercato e che preferiscono organizzazioni più
Grandi e più strutturate (si veda l’articolo di Stefano Casini su INNOVATION
POST).
Tradotto
nel concreto significa che il nostro Paese avrà un percorso molto più
difficile, indipendentemente dal Covid-19, verso la digital transformation e
verso tutti i cambiamenti che la 4° rivoluzione industriale sta proponendo. Non
sarà sufficiente inserire la nuova tecnologia per recuperare i ritardi
accumulati; servirà un progetto complessivo! Infatti, i contributi economici
che dovrebbero arrivare dall’Europa per favorire proprio la digital
transformation e più in generale la ripresa economica a seguito dello shock
causato dal Covid-19, potrebbero non essere sufficienti a far recuperare il gap
di produttività delle nostre imprese, se non dovessero essere accompagnati da
investimenti in termini culturali. Quest’ultimi investimenti dovranno essere
operati dagli imprenditori/manager delle singole imprese, perché solo loro
possono conoscere la base culturale della propria impresa. Inoltre, dovranno
essere realizzati indipendentemente dall’arrivo di finanziamenti,
altrimenti molte nostre imprese rischiano di uscire dal mercato. La mia
preoccupazione nasce soprattutto dalla considerazione che, molto probabilmente,
l’asticella della competizione globale si alzerà e sarà molto più
focalizzata sulla ricerca di nuovi vantaggi competitivi rispetto a quanto molte
imprese non stessero già facendo. Il Covid-19 sotto certo aspetti è già, ma
lo sarà ancora di più in futuro, un acceleratore di alcuni processi.
Evidentemente chi è impegnato a risolvere i nuovi problemi amplificati dalle vecchie
abitudini perderà terreno.
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Pierluigi Venturi |
Che
fare? Come si può recuperare il gap di ritardo culturale accumulato dalla
maggioranza delle nostre PMI?
Ne
parleremo nei prossimi articoli, ma nel frattempo vi posso anticipare lo schema
che ho intenzione di seguire:
1.
Non farò la lista
della spesa delle cose che servirebbero da parte della Politica e delle diverse
Istituzioni Nazionali o Europee. Mi limiterò ad
invitare l’imprenditore/manager a sospendere la fase del lamento e a
focalizzarsi sulle cose che servono alla sua impresa per farla crescere.
2.
Il percorso di
crescita culturale non parte dalla formulazione di una nuova Strategia, in
quanto quest’ultima è uno
strumento di gestione condizionato dalla cultura dell’imprenditore. Ne
segue che il percorso di crescita culturale parte dall’analisi del fare
quotidiano che dovrà essere orientato a quegli elementi così ben descritti
dalla definizione di cultura operata dal vocabolario Treccani, al fine di
consentire una crescita dell’imprenditore e dei suoi collaboratori e quindi,
raggiungere l’obiettivo di una nuova Strategia.
3.
La crescita culturale
passa, a mio avviso, attraverso quattro “elementi”, strettamente collegati tra
loro che, considero fondamentali, per elaborare una strategia
aziendale capace di far fronte ai cambiamenti continui del contesto
competitivo. I quattro elementi sono: la cultura del dato; il concetto di
vantaggio competitivo; l’innovazione e la formazione continua. Tutto il
resto è un di cui che può essere compreso all’interno di uno dei quattro
elementi principali. Ovviamente la strategia non può essere considerata come
semplice sommatoria dei quattro elementi sopra citati, in quanto
presenta proprie peculiarità ma senza una crescita in termini
culturali dei quattro “elementi” evidenziati non si ha la possibilità di
formulare strategie più qualitative.
In
definitiva, la cultura, per un'impresa, è l’asset più importante perché
rappresenta l’investimento con il minor rischio di obsolescenza e se alimentata
costantemente consente all’imprenditore e ai suoi collaboratori di interpretare
meglio i cambiamenti che avvengono continuamente sul mercato.
A
me piace usare spesso l’espressione: “il futuro è già iniziato”. E’ un concetto su cui insisto molto
perché ciò che farà qualsiasi imprenditore domani è figlio della sua Vision, di
come abbia deciso di declinarla dal punto di vista strategico e tattico, ma,
soprattutto, sarà il frutto di quanto sia diffusa nella sua azienda la cultura
d’impresa che ha ispirato il suo pensare.